Una squadra particolare

Sono originari della Siria, del Congo, del Sud Sudan e dell’Etiopia. Ma gareggeranno sotto la stessa bandiera, quella dei cinque cerchi. Si tratta della squadra dei rifugiati, per la prima volta alle Olimpiadi
Squadra rifugiati

Due. Solo due giorni e l’attesa sarà davvero finita. Parliamo dell’attesa di tanti atleti che da anni si allenano per dare il meglio di se stessi proprio in occasione dell’evento sportivo più importante del pianeta: i Giochi olimpici. Quest’anno, per l’ormai imminente edizione di Rio (oggi si comincia con alcune partite dei preliminari del torneo di calcio femminile ma il via ufficiale avverrà solo venerdì con la cerimonia di apertura), questa “trepidante” attesa riguarda, per la prima volta, anche una squadra davvero speciale, quella dei “rifugiati”, squadra fortemente voluta dal Presidente del Comitato Olimpico Internazionale, il tedesco Thomas Bach. Si tratta di dieci atleti, fuggiti per diversi motivi dai loro Paesi, e che hanno trovato rifugio in Belgio, in Lussemburgo, in Kenya, in Germania e anche in Brasile, proprio la nazione che nelle prossime settimane ospiterà i Giochi.

 

Sono stati scelti tra quarantatré candidati, «per dare un segnale di speranza a tutti i rifugiati del mondo», ha spiegato lo stesso Bach. Rifugiati, sfollati e richiedenti asilo politico che, secondo le ultime stime, hanno superato nel mondo i sessanta milioni! Tra di loro, ce ne sono anche alcuni che, pur tra mille difficoltà, cercano di praticare un po’ di sport. È il caso, ad esempio, di cinque rifugiati del Sud Sudan che hanno trovato “ospitalità” in Kenya, più precisamente nel campo profughi di Kakuma. Paulo Amotun Lokoro, Yiech Pur Biel, Rose Nathike Lokonyen, Anjelina Nadai Lohalith e James Nyang Chiengjiek sono scappati dal loro Paese, afflitto da una lunga guerra. Poi, quasi per caso, si sono ritrovati a far parte di un progetto di solidarietà legato allo sport messo a punto dalla Tegla Loroupe Peace Foundation,  un'organizzazione benefica che si occupa dello sviluppo socio-economico della zona racchiusa tra il corno d'Africae la regione dei Grandi Laghi, organizzazione che prende il nome della ex campionessa keniana di atletica leggera vincitrice in carriera (nei 10.000 metri) di due medaglie di bronzo ai campionati del mondo (nel 1995 e nel 1999).

 

Paulo, Yiech, Rose, Anjelina e James avranno tra qualche giorno l’opportunità di prendere parte ai Giochi di Rio (per il dettaglio completo delle competizioni cfr. il programma di gara), una cosa che ha quasi dell’incredibile pensando alla storia di questi ragazzi, e alle innumerevoli difficoltà che hanno già dovuto incontrare nella loro vita. Difficoltà che non sono mancate di certo anche nella vita di People Misenga e Yolande Bukasa, due ragazzi di origine congolese che praticano judo. People, oggi ventiquattrenne, aveva solo nove anni quando fu separato dalla sua famiglia durante degli scontri avvenuti a Kisingani. Salvato dopo otto giorni trascorsi nella foresta, fu portato in un centro per bambini sfollati a Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo, dove ha scoperto questo sport. «Quando sei un bambino, hai bisogno di una famiglia che ti spieghi cosa bisogna fare, ma io non l’ho avuta. Il judo mi ha aiutato dandomi serenità, disciplina, senso dell’impegno».

 

Peccato che ogni volta in cui gli capitava di perdere un incontro, il suo allenatore lo rinchiudeva in una gabbia per giorni alimentandolo solo con pane e caffè. Così, durante i campionati del mondo del 2013, disputati guarda caso proprio a Rio de Janeiro, dopo la sconfitta al primo turno che gli è costata il solito “trattamento” da parte del suo tecnico, People ha deciso di dire basta e di chiedere asilo al Brasile per cercare di migliorare la sua vita. La stessa scelta è stata compiuta anche da Yolande, che di anni oggi ne ha ventotto. Anche lei, dopo essere stata allontanata dai suoi genitori, ha scoperto il judo nel centro per bambini sfollati di Kinshasa. Anche lei, dopo aver subito umiliazioni in serie in occasione di ogni incontro perso, ha deciso di dire basta. Anche lei, in occasione dei citati mondiali brasiliani del 2013, è fuggita in ricerca di aiuto e di una vita migliore. «Spero che la mia partecipazione ai Giochi olimpici possa essere un esempio per tutti e possa cambiare la mia vita. Magari la mia famiglia mi vedrà e sarà possibile ricongiungerci».

 

A Rio, nei prossimi giorni, vedremo in gara anche Yonas Kinde, maratoneta originario dell’Etiopia, che da anni vive in Lussemburgo guidando un taxi per guadagnarsi da vivere. E ci saranno anche due nuotatori scappati dalla Siria: Rami Anis, venticinquenne, e Yusra Mardini, appena diciottenne. Nel 2011, quando è iniziato il conflitto siriano, Rami è fuggito in Turchia. Poi, quattro anni dopo, lo spostamento in Belgio. «Il nuoto è la mia vita, la piscina la mia casa», ha affermato questo ragazzo che, vista la situazione di pericolo, è stato messo su un aereo dalla propria famiglia per andare a vivere da un fratello maggiore che studiava a Istanbul. Qui Rami ha migliorato le sue capacità natatorie presso il Galatasaray Sports Club, ma non avendo la nazionalità turca non poteva prendere parte ad alcuna competizione. «È come se qualcuno studia, studia, studia senza mai poter sostenere un esame».

 

Così Rami ha deciso di andare via anche dalla Turchia, ed è arrivato in Belgio, precisamente a Gand, dove negli ultimi tempi si è allenato per nove volte alla settimana con l’ex nuotatrice olimpica Carine Verbauwen. «Con la determinazione che ho, sono sicuro di poter migliorare ancora. Sarà una grande emozione far parte delle Olimpiadi», ha affermato questo ragazzo. Quasi le stesse parole pronunciate anche da Yusra, la cui storia ha davvero dell’incredibile. Mentre stava fuggendo insieme alla sorella da Damasco, nel tentativo di raggiungere l’isola di Lesbo, il gommone su cui viaggiava ha rotto il motore. Yusra non si è persa d’animo, e insieme alla sorella e ad un’altra ragazza ha trascinato il gommone (in tutto a bordo c’erano venti persone), nuotando per circa 5 chilometri nel Mar Egeo per raggiungere la costa greca e riuscendo così a mettere tutti in salvo. «A bordo c’erano persone che non sapevano nuotare, sarebbe stato terribile se alcuni di loro fossero annegati».

 

Poi, raggiunta la costa, ha viaggiato a piedi insieme alla sua famiglia attraverso la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria e l’Austria prima di raggiungere la Germania (era il settembre dello scorso anno). Ora vive a Berlino, dove dal suo arrivo ha cominciato ad allenarsi presso un club natatorio locale. «A Rio voglio rappresentare tutti i profughi per dimostrare che, dopo il dolore, dopo la tempesta, possono arrivare giorni di calma. Voglio ispirarli a fare qualcosa di buono nella vita», ha spiegato questa giovane ragazza che, a Rio, farà parte di una squadra … davvero un po’ speciale.

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