Una rivolta inevitabile

Uno sbarco ingente di forze dell’ordine ha preceduto l’incendio del Centro di accoglienza. Tra rabbia ed esasperazione di immigrati e residenti arriva vescovo di Tunisi
Incendio al centro d'accoglienza di Lampedusa 09.2011

A vent’anni i sogni sono grandi e grandi sono le peripezie che si corrono pur di vederli realizzati: impossibile accettare che siano gli scogli di Lampedusa a infrangerli o le sbarre dei capannoni di contrada Imbriacola a rinchiuderli. La rivolta scatenata ieri pomeriggio dai giovani tunisini, rinchiusi da giorni nel centro di prima accoglienza in numero superiore alla possibilità – circa 1500 su un capienza accertata di 700 – trova forse in queste ambizioni le ragioni dell’incendio appiccato a tre capannoni.

 

Da mesi si susseguono poi i ricoveri per tagli da lama, intossicazioni per ingerimento di oggetti, ferite volontarie: segnali di un malessere forte tra questi giovani che diversamente vorrebbero impiegare tempo e forze. Partire dal loro Paese e tornarci a mani vuoti non era il progetto. «Erano già pronti alla fuga – afferma la nostra corrispondente Enza Billeci – con zaini in spalla e borse di plastica con i pochi vestiti, come se tutti conoscessero l’esatto momento dell’incendio. Non vogliono tornare in patria, continuano a ripetere a chiunque li incroci». Sembra che anche le forze dell’ordine presagissero la rivolta: da giorni i lampedusani vedono scendere da navi e aerei poliziotti in tenuta antisommossa e non era solo la visita del ministro La Russa a giustificarne l’ingente presenza.

 

In serata il vento di maestrale ha coperto di fumo il centro abitato dell’isola, facendo temere una tragedia ben più grave dei pochi intossicati e di qualche ferito, ma stavolta il popolo dell’accoglienza non c’è la fa e manifesta la sua esasperazione: «una situazione insostenibile», «siamo soli», «siamo stanchi», «portateli via». E il sindaco, Bernardino De Rubeis, si fa portavoce degli animi inaspriti da mesi di sbarchi e rimpatri che non conoscono la parola fine e chiama all’appello anche il presidente della Repubblica.

 

Stamattina gli immigrati, che ieri sera si erano provvisoriamente sistemati al campo sportivo, sono in giro per le strade del paese: l’isola è tornata ai giorni di fine marzo. Chiusi il distributore di benzina e i ristoranti sulla banchina per timore di altri atti vandalici. Due dei capannoni del centro d’accoglienza sono stati dichiarati inagibili e al momento non si vedono altre possibilità di sistemazione se non l’arrivo di navi militari. Le norme sul rimpatrio, al momento, prevedono solo l’impiego di aerei e quindi imbarchi limitati e controllati nei numeri, mentre qui l’emergenza cibo e alloggio tornano a farsi sentire e richiederebbero bel altri provvedimenti.  «Il nostro è un centro di soccorso e prima accoglienza, dove la permanenza degli ospiti non può superare le 48 ore e invece i tunisini vengono rinchiusi per settimane e addirittura per mesi interi», dichiara Peppino Palmeri,  capogruppo del Pd. La Procura, intanto, ha aperto un fascicolo e si tenta di individuare gli autori del gesto che rischiano di essere accusati di tentata strage.

 

Stamattina uno spettacolo insolito si è presentato sulla centrale via Roma: la banda musicale che annuncia la vigilia della festa della Madonna di Porto salvo sfila tra centinaia di musulmani, incuriositi dalla parata e plaudenti.

Scena che poche ore dopo sembra quasi un sogno: guerriglia urbana e sassaiole che provocheranno cariche della polizia e allerta generale su tutta l’isola. Oggi sono sull’isola il vescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, e l’arcivescovo di Tunisi Maroun Elias Nimeh Lahham, per celebrare assieme la ricorrenza per esprimere la gratitudine dell’antica Chiesa tunisina per quella di Lampedusa. Una ricorrenza funestata dalla rivolta e dal malessere e che poco ha di festa.

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