Una Chiesa attaccata

Dal dicembre scorso tre sacerdoti uccisi e uno seriamente ferito. Attacchi separati ma ben orchestrati. La difficile posizione della Chiesa.

Fa impressione che la testata del Qatar, la più famosa del Medio Oriente, riporti alcuni articoli su Rodrigo Duterte, il discusso presidente delle Filippine: spicca un lungo reportage sulla situazione della Chiesa nel Paese più cattolico dell’Asia, alla luce degli ultimi avvenimenti drammatici, che tendono, anche secondo altre fonti giornalistiche, ad intimorire il clero filippino, indebolirlo, eliminando alcuni dei suoi esponenti più in luce. Forse anche cercando di dividere la Chiesa, tra sostenitori pro e contro Duterte. L’uccisione di tre sacerdoti in attacchi separati, dallo scorso dicembre, ha fatto salire l’allarme verso una vera e propria «cultura della violenza e dell’impunità»: un’accettazione del delitto come unico modo efficace per sconfiggere la piaga della droga, ma non solo.

Che succede nei fatti? Duterte con le sue ripetute interviste, con un linguaggio violento e scurrile, cerca di legittimare e avallare la sua ambigua e violenta politica contro la droga e le sue reti: eliminare tutti coloro che ne fanno uso o commercio. Una politica criticata in patria come all’estero, che non risolve il “problema droga” e semina sulle strade migliaia di morti violente. Anche esponenti della dissidenza nei confronti di Duterte non sono immuni da questa politica violenta, illegale ed ingiusta.

«Siamo molto allarmati». Padre Jerome Secillano, portavoce della Conferenza episcopale delle Filippine (Cbcp), ha dichiarato mercoledì scorso in un’intervista che «gli assassinii sono una forma di violenza. Noi non vogliamo che essa permei la nostra società. Vogliamo una società libera da essa. Vogliamo che i nostri cittadini possano camminare liberamente per le strade delle città, con un senso di sicurezza e serenità».

 

Padre Richmond Nilo è l’ultimo membro del clero cattolico ad essere stato ucciso da uno sconosciuto la scorsa settimana, mentre si stava preparando per celebrare la messa in una città del Nord, a Nueva Ecija. Anche se è difficile vedere una vera “politica di uccisioni” contro i sacerdoti, certo è, come padre Secillano ha dichiarato, che questa cultura della violenza e dell’impunità, dove è accettato il delitto per l’eliminazione dei cosiddetti «cattivi», o semplicemente dei propri avversari politici, fossero anche in relazione al traffico di droga, potrebbe aver fatto sì che l’uccisione di padre Nilo e di altri sacerdoti, sia avvenuta in modo «troppo naturale», se possiamo chiamare così l’assassinio di un ministro della Chiesa o di qualsiasi altra organizzazione. Come se fosse giustificata la sua uccisione, visto che era «scomodo» per qualcuno.

Le autorità filippine hanno annunciato, due giorni fa, di aver individato e arrestato il sospettato principale nell’uccisione di padre Richmond Villaflor Nilo, proprio nello stesso giorno in cui veniva seppellito. Bisognerà verificare se si tratta del vero esecutore, oppure di un semplice capro espiatorio. In 6 mesi, ci sono state altre due uccisioni di sacerdoti: padre Mark Ventura, ucciso subito dopo la messa a Gattaran, nella provincia di Cagayan, in aprile, e padre Marcelito Paez, ucciso a poche ore dal rilascio di un prigioniero politico nella città di Jaen, sempre nella provincia di Nueva Ecija, lo scorso dicembre. Un quarto sacerdote, cappellano della polizia, è riuscito a sopravvivere ad un attentato questa volta poco fuori Manila, all’inizio di giugno.

La Chiesa nelle Filippine, va detto, soffre a causa di queste uccisioni ma anche della divisione “politica” al suo interno: molti cattolici prendono in effetti posizione a favore di Duterte, sostenendo che è il miglior presidente che le Filippine abbiano mai avuto. Ma nel frattempo, la stessa Chiesa, che lavora da sempre a favore della gente, della giustizia, dei valori civili, per il bene di tutti, sta pagando il suo servizio con la vita di molti suoi ministri.

 

 

 

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