Una brutta campagna che non serve agli Usa

Nel secondo dibattito tra i due candidati alle presidenziali gli attacchi al rivale sono stati tristi, scorretti, non degni di un popolo che chiede una leadership capace di riunire il Paese e non di lacerarlo ancora
Trump Clinton

«Per me dovresti essere in prigione», ripete Donald Trump a più riprese riaprendo il capitolo delle comunicazioni ufficiali che la Clinton ha inviato dalla sua posta personale. Hillary sottolinea con fatti senza mai dirlo apertamente che Trump è un bugiardo: mente sulle tasse, sul non sostegno alla guerra in Iraq nonostante tanti video provino il contrario, sul rispetto delle minoranze e delle donne.

Lui invece usa la parola bugiarda e bugie a più riprese, minaccia un’indagine del procuratore generale sui fondi di Clinton, grida che il marito ha usato violenza contro le donne (poco prima di iniziare il dibattito in una conferenza stampa aveva invitato tre donne che dichiarano di essere state molestate e violentate dall’ex presidente degli Usa). Lei risponde che l’ira dell’avversario nasce dal constatare l’abbandono da parte di oltre 160 membri del suo partito, disgustati dal video lanciato dal Washington post in cui il candidato repubblicano fa pesanti allusioni sulle donne e racconta di una sua fugace relazione con una signora sposata. E aggiunge che Trump non ha la statura per governare il Paese. Toni ostili, accuse al vetriolo, sguardi fulminanti: i novanta minuti del secondo dibattito presidenziale dove i due candidati dovevano rispondere alle domande poste dal pubblico trasudavano livore e reciproca antipatia in ogni mossa o parola.

Solo l’ultima domanda ha provocato un sospiro di sollievo nel pubblico presente e in quello collegato: Cosa ammira del suo avversario? Lei: «I figli». Lui: «E’ una combattente». Ed è anche arrivata la stretta di mano finale, evitata all’inizio del dibattito come presagio dell’astio con cui sarebbe proseguito l’incontro.

 

Gli attacchi personali hanno prevalso sui temi della campagna o comunque quando si sono affrontati i problemi interni e quelli esteri non sono mai mancate allusioni o colpi bassi che evidenziavano rispettive incapacità o menzogne. La Clinton ha chiaramente denunciato l’ingerenza russa nella campagna e Trump ha detto di non conoscere la Russia. Il terrorismo che il candidato repubblicano ha attribuito in maniera indiscriminata anche ai musulmani afro-americani ha origine nella politica estera perseguita da Obama, «un disastro, un disastro». Non ha tutti i torti ad attribuire la deriva violenta e sanguinaria a cui assistiamo in Siria ed in Iraq alla politica estera Usa, ma non va dimenticato che il suo partito con Bush innescò la spirale di morte. La Clinton dal canto suo vanta il successo delle sanzioni iraniane, la fine di Gheddafi (che forse non andrebbe valutato in modo trionfale viste le conseguenze), il lavoro di inclusione delle minoranze che prima da first lady e poi da senatrice ha portato avanti. Sanità, energie rinnovabili, nomina del giudice della Suprema Corte, i giovani, il rilancio dell’economia hanno visto i due candidati su posizioni distanti o meglio Hillary precisava una posizione e un programma, Donald invece lanciava slogan, invettive e trasformava le risposte in accuse, senza che riuscisse a trasmettere la sua ricetta per «rendere grande l’America».

 

Televisivamente il repubblicano ha forse vinto il dibattito, tanti si aspettavano un fallimento bis, dopo quel primo faccia a faccia quando era sembrato più impacciato e smarrito. Ieri sera ha governato il palcoscenico, ma Hillary è stata presidenziale in quasi tutti i botta e risposta anche se era evidente la difficoltà nel trovare ragionevoli e razionali giustificazioni alle mail diffuse da Wikileaks e al caso Sanders, silurato dal suo partito per favorire lei. Non ha ceduto alle provocazioni facendo sua la massima di Michelle Obama «quando loro vanno in basso, tu punta in alto»e così ha fatto citando Lincoln a proposito delle differenti posizioni nella vita pubblica e privata – il presidente aveva fatto lo stesso per arrivare all’abolizione della schiavitù -, si è rifatta alla costituzione a proposito della libertà e del rispetto delle religioni per presentare un Paese inclusivo e infine non ha mancato di presentare il suo curriculum di statista a cui Trump ben poco poteva contrapporre. La contrapposizione è la lingua sbagliata di questa campagna dove la gente chiede invece di tornare ad essere una comunità solidale, unita, dove il sogno americano è prima un sogno di successo da realizzare insieme, in maniera condivisa e non un obiettivo di esperti marciatori o di velocisti che non riescono più a capire il loro stesso Paese.

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