Un popolo e il suo vescovo

A trent'anni dal martirio di Oscar Romero, seme di pace nella giustizia.
romero

Fare memoria di Oscar Arnulfo Romero vuol dire rendere vive e attuali intere generazioni di laici fedeli al Vangelo che incontrarono la morte nel Paese centroamericano, devastato da una violenza che traeva origine dalla diseguaglianza economica. Un cristiano vescovo che non riteneva la propria vita più preziosa dei tanti poveri che subivano violenza. Mite, non poteva tacere di fronte alla violenza. Ucciso sull’altare il 24 marzo del 1980, confondendo il proprio sangue con quello eucaristico e del suo popolo.

 

Sapeva di dover morire quando il giorno prima, in cattedrale, aveva affermato: «Io vorrei lanciare un appello in modo speciale agli uomini dell’esercito, e in concreto alle basi della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme. Fratelli, che fate parte del nostro stesso popolo, voi uccidete i vostri stessi fratelli contadini! Mentre di fronte a un ordine di uccidere dato a un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non uccidere”! Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno è tenuto a osservarla. È ormai tempo che riprendiate la vostra coscienza e obbediate alla vostra coscienza piuttosto che alla legge del peccato. La Chiesa, sostenitrice dei diritti di Dio, della dignità umana, della persona, non può restarsene silenziosa davanti a tanto abominio. In nome di Dio, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono ogni giorno più tumultuosi fino al cielo, vi supplico, vi prego, vi ordino: basta con la repressione!». E in un omelia dell’anno prima affermava: «È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa “in favore” dei poveri. Questo non è cristianesimo! […] Molti, carissimi fratelli, credono che quando la Chiesa dice “in favore dei poveri”, stia diventando comunista, stia facendo politica, sia opportunista. Non è così, perché questa è stata la dottrina di sempre. […] A tutti diciamo: Prendiamo sul serio la causa dei poveri, come se fosse la nostra stessa causa, o ancor più, come in effetti poi è, la causa stessa di Gesù Cristo».

 

Romero non aveva però timore di mostrarsi nella sua fragilità. Per chi ha letto le testimonianze su questo testimone della fede, rimane impresso l’episodio di quando Marianella Garcia Villas, avvocato presidente della Commissione dei diritti umani che Romero aveva istituito, gli racconta delle violenze che aveva subito e il vescovo si mette a piangere come un bambino tanto che la stessa Marianella sente il bisogno di confortalo e dargli sostegno. Quella stessa donna, promotrice della resistenza non violenta, verrà uccisa dagli squadroni della morte nel 1983, mentre stava documentando l’uso del fosforo bianco e napalm contro la popolazione civile da parte dell’esercito.

 

È recente la notizia sulla Commissione interamericana sui diritti umani (Cidh), che ha stabilito la responsabilità dello Stato salvadoregno nell’assassinio dell’arcivescovo Romero. Ma come segno della pace nata dalla vita di Romero è bello riportare la cronaca di un biografo di Romero, Ettore Masina, che si trovava in Salvador all’annuncio del primo accordo di pace tra governo e forze guerrigliere, siglato nel 1992, e che racconta l’esplosione di vita e devozione popolare verso il Romero d’America : «Quel giorno, nella piazza del palazzo presidenziale, ebbe luogo una grande festa: finalmente dopo tanti anni i salvadoregni potevano radunarsi senza paura, muchachos con il fazzoletto rosso del fronte rivoluzionario accanto a quelli con le divise dell’esercito, in pace. Famiglie disgregate si ricomponevano dopo anni d’assenza. Poi le orchestrine cominciarono a suonare, centinaia di coppie si allacciarono nelle danze. Su una facciata della cattedrale c’era un’immensa fotografia di Romero con la scritta: "Monsignore, sei risorto nel cuore del tuo popolo". Passando accanto a quel muro, i ballerini buttavano baci. Qualcuno, tenendo la dama o il cavaliere con la sinistra, si faceva il segno della croce. Non dimenticherò mai quello spettacolo: e penso che pochi santi abbiano avuto una così gioiosa, affettuosa canonizzazione».

 

Iniziano anche a Roma dal 24 marzo 2010 una serie di celebrazioni, incontri e spettacoli che si svolgeranno principalmente in alcune parrocchie della periferia, che hanno stretto negli anni rapporti di gemellaggio con la comunità salvadoregna nel nome di Romero, riconosciuto come simbolo degli ultimi e voce di chi non ha voce. Ma già dalla sera del 23 marzo l’anniversario è stato celebrato dalla Comunità di Sant’Egidio con una messa presieduta dal da mons. Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, a cui hanno preso parte alcune migliaia di persone. Nella basilica di Santa Maria in Trastevere è stato esposto il messale che appartenne al vescovo ucciso, oggi custodito nella basilica di San Bartolomeo, luogo memoriale dei martiri e testimoni della fede del nostro tempo. La Comunità di Sant’Egidio è presente in Salvador da molti anni. Quest’anno un giovane della Comunità, William Quijano, è stato ucciso da una banda perché impegnato nel salvare i bambini e i giovani dalla violenza nel quartiere periferico di Apopa.

 

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