Un po’ follower un po’ influencer

La fragilità della bolla speculativa costruita attorno agli influencer. L'importanza del rapporto di fiducia che si dovrebbe stabilire fra un personaggio e la sua community. Ma quanto sono disposto a raccontare di me in rete? (terza parte dell'articolo)
(AP Photo/Markus Schreiber)

La “liquidità” a cui ci ha abituato l’era digitale [5] rende difficile misurare quantitativamente i molteplici fattori che caratterizzano il concetto di affiliazione. La nostra umanità è infatti caratterizzata da aspetti qualitativi che evolvono anche in funzione delle tecnologie che utilizziamo e i followers non agiscono come freddi algoritmi selezionatori, ma come persone il cui comportamento – al di là degli schermi e dell’immagine che si vuole dare di sé – si rivela in modo imprevedibile.

Nel 2019 ha fatto discutere il caso di Arianna Renee: influencer da 2,6 milioni di followers che, malgrado una buona campagna mediatica, non è riuscita a vendere neanche uno scatolone di magliette della sua linea di abbigliamento  [6]. Quella operazione di marketing e il dibattito che è seguito fra lei e i suoi followers hanno rivelato, forse per la prima volta, la fragilità della bolla speculativa costruita attorno agli influencer e ha messo in luce quanto sia importante il rapporto di fiducia che si dovrebbe stabilire fra un personaggio e la sua community.

Da allora le strategie di mercato si sono ulteriormente affinate e hanno imparato dai propri errori, ma i parametri del successo variano continuamente, a seconda delle generazioni e delle sensibilità personali. Al di là delle logiche del profitto, comunque, la popolarità di chi si espone in rete a questa sorta di “retificazione” della propria immagine dipende da quanto si è disposti a raccontare di sé e da come lo si fa.

Si tratta di doti naturali legate alla personalità, alla capacità di comunicare e di coinvolgere i propri followers, ma anche di avvalersi di agenzie e servizi digitali usati per scalare le graduatorie. Alla luce di tutto questo si può capire come su certe frontiere della comunicazione vadano a mescolarsi fra loro vari aspetti legati alla persona nel suo insieme e viene da chiedersi cosa sia prevalente: l’autentico desiderio di condivisione, la speranza di un buon profitto o il narcisismo?

Prendiamo il recente caso di Fedez – artista e influencer con 13,7 milioni di followers (solo su Instagram) e “Re Mida” del web insieme alla ancora più celebre moglie Chiara Ferragni. Solo poche settimane fa ha pubblicato un video in cui racconta alla sua community del raro tumore al pancreas che lo ha colpito e del lungo periodo di cure che ne seguirà. Il fatto ha generato una grande eco mediatica e le opinioni si sono divise: abile strategia per monetizzare l’esperienza dolorosa attirando nuovi sponsor o genuina intenzione di condivisione?

I dubbi ci sono, ma prima di rispondere occorre essere consapevoli di una cosa: i social network hanno cambiato il nostro modo di vedere il mondo e di vivere le nostre relazioni. La maggior parte di noi tenderebbe a custodire i propri drammi in un ambiente familiare o comunque riservato, ma per chi passa buona parte del proprio tempo a raccontare di sé e condividere contenuti online il discorso è diverso.

L’interazione con la propria community diventa un elemento primario ed essa – malgrado possa essere composta da milioni di persone – tende a diventare come una stretta cerchia di amici. Per i nativi digitali, o comunque per chi è abituato a fruire di questa forma di comunicazione, queste dinamiche sono del tutto naturali e la comunicazione di sé, anche in questi frangenti, può essere davvero autentica.

Da anni è in atto una crescente integrazione fra il mondo online e quello offline, e vediamo fondersi fra loro le dinamiche della rete a quelle della vita privata. Il digitale rimodella il nostro concetto di essere-con e di esser-per, cioè di comunicare ed essere in relazione, influenzando il processo di costruzione della nostra stessa identità. Sta a noi orientare queste tendenze nel modo migliore.

Occorre però rendersi conto che in quest’epoca, per la prima volta nella storia dell’umanità, le tecnologie evolvono più rapidamente della nostra capacità di adattamento e ciò richiede un pizzico di consapevolezza in più. Da sempre psicologi, sociologi e filosofi affermano che sapersi relazionare agli altri e sapere comunicare sono aspetti che caratterizzano profondamente la natura umana. In questa prospettiva,  l’autentica narrazione di sé, affrancata dalle immagini stereotipate e dai ritocchi di troppi filtri, può portare a ritrovare e attivare la componente empatica che ci caratterizza come persone e che ci può arricchire reciprocamente, portandoci a scoprire che tutti noi siamo un po’ follower e un po’ influencer l’uno dell’altro.

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[5] A. Galluzzi, Tecnoliquidità. La costruzione del sé e del noi nell’era digitale (16/06/2021)

http://www.cittanuova.it/tecnoliquidita/

[6] R. Hosie, An Instagram star with 2 million followers couldn’t sell 36 T-shirts, and a marketing expert says her case isn’t rare (30/05/2019)

https://www.insider.com/instagrammer-arii-2-million-followers-cannot-sell-36-t-shirts-2019-5

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Le prime due puntate dell’articolo sono:

Influencer: i nuovi mediatori dell’era digitale

Influencer: comunicare è un’arte

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