Un coro polifonico

«Dio ti ama immensamente»: è la scoperta folgorante che Chiara Lubich fa nel 1940 in occasione di un incontro con un giovane frate cappuccino. Una rivelazione che non tiene per sè, ma comunica subito a quante ha attorno. Ben presto si compone un gruppo di ragazze con il desiderio di comunicare questa scoperta a Trento, all’Italia, a tutto il mondo. Il racconto nelle pagine de Abbiamo creduto all’amore di Gaetano Minuta (Città Nuova), di prossima pubblicazione
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Chiara Lubich aveva fatto nascere un gruppo dell’Azione Cattolica a Castello d’Ossana dove, appena diplomata, nel 1938-1939, aveva insegnato in una pluriclasse elementare. Si chiamava ancora Silvia. Dopo Castello d’Ossana, l’anno successivo insegnò in Val di Non, a Varollo di Livo. L’insegnamento durò poche settimane. Nell’autunno del 1940 fu chiamata a insegnare a Cognola, una frazione di Trento, all’Opera Serafica, una casa-istituto per trovatelli e bambini poveri. Fu lì che padre Casimiro Bonetti, un giovane frate cappuccino, la conobbe.

Un giorno, trovandosi a passare all’Opera Serafica, padre Casimiro bussò alla porta dell’aula della maestra Lubich, e le chiese di offrire un’ora della giornata per il suo apostolato.

Silvia rispose: «Un’ora? Ma tutto il giorno!». Il padre, di fronte a tale immediata generosità, benedicendola: «Si ricordi che Dio la ama immensamente». Per Silvia fu una folgore: le sembrò di vedere la realtà con occhi nuovi. Fu una scoperta sconvolgente che comunicò immediatamente alle sue amiche.

Padre Casimiro ebbe occasione di parlare alle tre maestre di quell’istituto del fuoco d’amore che Francesco nutriva per Gesù crocifisso che lo aveva spinto a lasciare tutto. Alla fine chiese a Silvia: «Lei cosa pensa, cosa mi dice?». «Padre, non avevo mai sentito cose del genere. Voglio anch’io questo fuoco d’amore, voglio portarlo nel mondo». Padre Casimiro raccontava che, guardandola, la vide ardere dello stesso fuoco.

«Tornai più volte nell’orfanotrofio a predicare – ricorda padre Casimiro – e, vedendo il suo entusiasmo, le affidai altre giovani. Successe l’impensabile. Perché Silvia più che dal Terz’ordine, era rimasta presa dal “fuoco d’amore” e voleva trasfonderlo nelle altre. E ogni mattina, indipendentemente da me, loro si trovavano presso la chiesa di S. Marco, nella Sala Massaia, e lei le istruiva su cose meravigliose e le infiammava».

Silvia entrò a far parte del Terz’ordine francescano e come terziaria scelse il nome della più accesa seguace di Francesco d’Assisi, Chiara.

Il giovane frate, una domenica della seconda metà dell’ottobre del 1942, era andato a celebrare la messa per le aspiranti di Azione Cattolica. Lì aveva incontrato Maria Tecilla: «Mi vedo arrivare questo padre, non lo conoscevo, piccolino come me, con la barba rossiccia, lunga, folta, tutto raccolto, giovane come me. Celebra la messa e dopo, siccome le suore avevano preparato la colazione per queste ragazze, mentre eravamo lì, la sacrestana mi dice: “Il padre è in sagrestia e vorrebbe parlarle”. Allora vado e vedo questo padre con le mani dentro le maniche larghe, con la testa bassa: “Senta, signorina, io sono il nuovo direttore del Terz’ordine dei cappuccini, è da poco che sono qui, però ho visto che come Terz’ordine c’è poco. Io vorrei dare una spinta, lei non risponda subito, venga al convento, so che sta da quelle parti e mi dica se è disposta a darmi una mano”».

Maria lavorava anche di sabato e sapeva benissimo che, con i due fratelli che aveva, in casa c’era bisogno del suo aiuto. Ma siccome le adunanze delle terziarie si facevano una volta al mese, decise di andare. Aveva ricevuto un invito per un incontro in Sala Massaia.

«Era domenica. Vado in quella sala, vedo tante donne giovani, di mezza età, e poi vedo una signorina che non avevo mai visto perché abitava a Gocciadoro. Mi siedo lì, poco distante. Eravamo una quarantina. La signorina ha cominciato a parlare. Non aveva scartoffie in mano: parlava di getto, dall’animo. Ha parlato dell’amore di Dio. E tra me e me mi sono detta: “Quella lì è quella giusta!”. Nel senso che avevo trovato. Se prima non capivo cosa cercavo, lì ho detto: ho trovato. Non ha parlato né di penitenze né di questo e di quell’altro e ho fatto un proponimento: quella lì (perché non sapevo come si chiamava) non voglio più perderla di vista».

Cominciava a prendere forza un modo di leggere il Vangelo. Ricorda Maria Tecilla: «Una sera eravamo in focolare a piazza Cappuccini, con Chiara e alcune delle sue prime compagne. Ricordo che eravamo sedute per terra, avevamo pulito bene, sedie non ce n’erano. C’erano due brandine e un grande quadro di Gesù Abbandonato. La porta della stanza di Chiara dava sul terrazzino e di là, era di sera, si vedevano le luci della città. Chiara ha detto: “Vedete quelle luci? Dobbiamo arrivare a tutta Trento; non solo, ma a tutto il Trentino; non solo, a tutta l’Italia; non solo, a tutto il mondo”. Noi credevamo a Chiara. Dicevamo: “Se lei lo dice, noi non discutiamo”. Però dovevamo fare un salto nella fede pura, perché eravamo solo ragazze, tanto giovani e poche».

Gaetano Minuta, Abbiamo creduto all'amore (Città Nuova, 2013)

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