Un cammino ancora lungo

Sono state consegnate ieri in Cassazione quasi un milione e mezzo di firme per il referendum in difesa della gestione pubblica dell'acqua. Ma non è che il primo passo.
firme

In due mesi sono state raccolte un milione e 400 mila firme per la proposta di referendum abrogativo di alcune delle norme che regolamentano la gestione dell’acqua in Italia. I quesiti sono stati elaborati da un gruppo di giuristi autorevoli, coordinati da Stefano Rodotà, per cui si prevede un facile passaggio dell’esame preventivo da parte della Corte di Cassazione. Le urne per le votazioni verranno allestite prevedibilmente nel marzo 2011. L’iniziativa parte dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, che non ha voluto la partecipazione diretta dei partiti: un gruppo eterogeneo, che parte dal comitato italiano per il contratto mondiale dell’acqua alla diocesi di Termoli Larino, passando per Mani Tese, sindacato dei Cobas, Attac e tanti comitati locali.

 

Le ragioni di una gestione dell’acqua intesa come bene comune da sottrarre ai criteri del mercato hanno trovato un consenso che travalica le appartenenze politiche: non sono rari gli esempi di gestione pubblica virtuosa delle risorse idriche da parte di amministrazioni di vari schieramenti.

 

Negli ultimi anni i referendum non hanno riscosso un grande successo di partecipazione. I fautori del no ad ogni abrogazione di legge vincono convincendo gli elettori a non recarsi alle urne. Il referendum abrogativo è valido solo se si esprimono, anche con la scheda bianca o nulla, più della metà degli aventi diritto al voto. L’obiettivo difficile da raggiungere da parte dai comitati è quello di arrivare, perciò, a 25 milioni di partecipanti al referendum.

 

Gli articoli da abrogare riguardano sia il decreto Ronchi che il decreto legislativo 152/2006 (conosciuto come codice dell’ambiente). Nell’abrogazione dell’articolo 154 di quest’ultimo si individua la possibilità di eliminare, secondo il Forum dei comitati per l’acqua pubblica, il “cavallo di Troia” che ha aperto la strada alla privatizzazione nella gestione dell’acqua: prevede infatti che la tariffa del servizio idrico sia determinata tenendo conto non solo dei costi di gestione delle opere, ma anche «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Una questione ben presente a livello internazionale, se solo pensiamo alla città di Parigi che proprio dall’inizio del 2010 è tornata ad una gestione pubblica dell’acqua potabile sottraendola alla competizione tra le multinazionali Veolia (gruppo Vivendi) e Suez. Quest’ultima, tra l’altro, in competizione con il gruppo Caltagirone nella presenza all’interno del capitale azionario della Acea, società mista pubblica privata con posizione, ancora prevalente, del Comune di Roma.

 

In attesa della conferma della reale indizione del referendum, si potrebbe aprire un dibattito serio sulla questione dei beni comuni a partire dal caso emblematico della risorsa idrica, che mette in gioco il ruolo del pubblico e dei privati. Un dibattito sulla modalità e i costi di una gestione rigorosa e partecipata, senza sprechi e derive clientelari. Una gestione che richiede comunque forti investimenti e l’attenzione costante alle fasce povere della popolazione.

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