Umanità della pena e regime del 41 bis

Una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha dettato nuove regole, nel segno della legalità e trasparenza, per l’applicazione della detenzione dura. Prime considerazioni
ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Sono passati 25 anni da quando venne introdotto nell’ordinamento penitenziario il regime del 41 bis. Era il 1992 e c’erano state le stragi di Capaci e Via D’Amelio costate la vita a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e agli uomini e alle donne delle rispettive scorte.

Ricorrendo gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, infatti, il Ministro della giustizia ha la facoltà di sospendere in tutto o in parte nei confronti dei detenuti le regole del trattamento penitenziario. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle esigenze di ordine e sicurezza e per impedire i collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva.

Cos’è successo in questi anni lo possiamo intuire da  quanto ha spiegato Roberto Piscitello, l’estensore   della corposa circolare, emanata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria frutto di un’interlocuzione con la Procura Antimafia  e il Garante per i detenuti: «Era necessario rendere omogenea l’applicazione del 41 bis, evitando sia atteggiamenti troppo permissivi che restrizioni troppo afflittive; il regime di detenzione speciale serve a impedire l’ideazione, la pianificazione e la commissione di nuovi reati, ma non può e non deve trasformarsi in una pena aggiuntiva rispetto a quella stabilita dai giudici nei processi».

Obiettivo della circolare, spiega sempre Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento, «è rendere uniforme la vita quotidiana del regime, sotto un duplice profilo. Da un lato l’idea che il rispetto delle garanzie dei detenuti attraverso un trattamento uniforme impedisca pretese posizioni di potere che possono derivare anche dalla concessione di diritti. Deve essere chiaro quali sono le regole e che i diritti sono quelli per tutti e che non sono in alcun modo concessioni. Dall’altra parte qualunque forma di regola imposta non deve valere come forma di afflizione».

Su un tema importante e delicatissimo, quale la detenzione di pericolosi detenuti, si erano registrate quindi un’applicazione non omogenea, un trattamento non uniforme dei detenuti, regole imposte quasi come un supplemento di afflizione.

Si spiega così la lunghezza e il dettaglio minuzioso del documento che passa in rassegna il quotidiano della vita detentiva disciplinando particolari che a un profano possono sembrare eccessivi, ma che in un contesto limitativo e privativo della libertà, possono diventare o una afflizione in più non prevista dalla legge o un piccolo privilegio da esibire per mantenere viva la rilevanza del ruolo criminale da parte del detenuto.

Attraverso 37 norme e un corposo elenco di allegati si dispiegano le misure applicate ai 740 detenuti ai quali è applicato il regime del 41 bis.

Questo regime non si configura come regime particolarmente afflittivo affidato alla volubile interpretazione di operatori. Si tratta, invece, di una qualificazione organizzativa dell’organizzazione penitenziaria disciplinata e regolamentata per tagliare i collegamenti tra persone recluse e l’associazione criminale che li ha espressi.

Si tratta quindi di un onesto e trasparente sforzo di bilanciamento degli interessi connessi con la sicurezza sociale e penitenziaria da un lato e la dignità del detenuto dall’altro.

Può comprendersi così, tra l’altro, la limitazione nell’accesso all’informazione quando viene esclusa quella fornita da stampa a carattere locale vista come possibile fonte di “aggiornamento” per il recluso sulla situazione nel suo ambiente di vita. Ma non si comprende, invece, per esempio, l’esclusione dall’elenco dell’acquisto del quotidiano Avvenire e del settimanale Famiglia Cristiana, che hanno certamente    una tiratura nazionale di tutto rispetto e non sono individuabili come locali.

Talora in questo tipo di decisioni sembra influire una certa insofferenza per la critica o per l’insistenza con le quali vengono trattate, su questi media, le problematiche e le tematiche penitenziarie.

Ma, a mio parere, devo osservare che un’amministrazione che impronta la sua azione a trasparenza e legalità non abbia nulla da temere dalla stampa che fa conoscere e illustra le problematiche delle carceri e della vita delle persone che in esse sono ristrette e di quelle che, negli stessi istituti di pena, lavorano, in silenzio, per assicurare a tutti i cittadini la sicurezza e la possibilità di rigenerazione sociale dei condannati.

 

 

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