Trattativa Stato-mafia: far luce sulla verità

Chi sono gli imputati del processo che il giudice ha rinviato a giudizio lo scorso 7 marzo? Mafiosi, ufficiali dei carabinieri e politici che nei modi più vari hanno favorito il contatto tra istituzioni e Cosa Nostra. Basta con le ombre che minacciano l'assetto democratico di un Paese
quinta mafia

Il giudice per le indagini preliminari, Piergiorgio Morosini, ha rinviato a giudizio lo scorso 7 marzo tutti e dieci gli imputati del processo cosiddetto “Trattativa Stato-mafia”. Mafiosi, ufficiali dei carabinieri e politici. Vediamo di capire chi sono.

L'Arma Nel 1992 il comandante dei Ros (Reparto operativo speciale dei carabinieri) era il generale Antonio Subranni, mentre l’allora colonnello Mario Mori era il vicecomandante e Giuseppe De Donno, un capitano del reparto. Tutti e tre sono accusati di aver partecipato alla minaccia a corpo politico dello Stato. In buona sostanza sarebbero i «pubblici ufficiali che hanno agito con abuso di potere e violazione dei doveri inerenti una pubblica funzione», favorendo di fatto il contatto con esponenti mafiosi tramite un sindaco, don Vito Ciancimino, e lo sviluppo di una trattativa, tollerando al contempo la latitanza di Bernardo Provenzano.

I politici Lillo Mannino, rappresentante della sinistra democristiana in Sicilia, è quello che ha la posizione più grave. Avendo saputo, infatti, che il suo nome era fra i primi posti degli obiettivi da colpire in una lista stilata da Totò Riina, nei primi mesi del 1992 prese contatti con i Ros. Mannino si sarebbe rivolto al generale Subranni per cercare di «trattare» la sua posizione. Questo almeno è scritto nelle carte della procura di Palermo che lo accusa. Mannino avrebbe esercitato «indebite pressioni – scrivono i magistrati – finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione» del 41 bis, cioè il “carcere duro”.

Poi c’è Marcello Dell’Utri il quale, dopo l’uccisione del deputato europeo siciliano Salvo Lima si sarebbe proposto come «interlocutore – dicono i magistrati – degli esponenti di vertice di Cosa Nostra per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici» contenuti nel cosiddetto «papello». Per Mannino, va detto, il giudice ha disposto lo stralcio e il suo processo, con il rito abbreviato, prenderà le mosse nelle prossime settimane.

Infine Nicola Mancino, ministro ai tempi della “trattativa”, al quale i giudici contestano almeno tre omissioni: i contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros con Vito Ciancimino, le «lagnanze del ministro della Giustizia Martelli» sull’operato dello stesso Ros , le «motivazioni che provocarono, nell’ambito della formazione del governo, l’avvicendamento dell’onorevole Scotti nel ruolo di ministro dell’Interno». I magistrati, a differenza che degli altri imputati, contestano a Mancino la falsa testimonianza.

Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino. Reo confesso giacché ha ammesso di aver svolto la funzione di messaggero tra suo padre e il padrino di Corleone, Bernardo Provenzano. Grazie alle sue dichiarazioni è stata riaperta l’inchiesta, che vede però lui stesso coinvolto perché imputato di concorso esterno e calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro.

E poi ci sono i mafiosi. E non potevano certo mancare. Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Nino Cinà. Totò Riina sarebbe stato il terminale della trattativa e avrebbe redatto i punti del cosiddetto “papello”.  Bagarella e Brusca avrebbero avuto il compito di mantenere i rapporti tra Palermo e Milano. Infine Bernardo Provenzano. Dopo la strage di via D’Amelio sarebbe diventato lui il terminale del dialogo avviato dagli ufficiali del Ros. I magistrati sostengono che proprio grazie alla trattativa, Provenzano avrebbe ottenuto una sorta di salvacondotto per la sua latitanza, durata ben 43 anni!

Lo scorso 7 marzo, in una delle aule della Corte d'Assise a Palazzo di giustizia, il Gup Morosini ha quindi deciso di rinviare a giudizio tutti  gli imputati. Il processo si aprirà il prossimo 27 maggio davanti alla seconda sezione della Corte di Assise di Palermo.

Quello che ci  si aspetta è che finalmente venga fatta luce su quegli anni bui della nostra democrazia. L’accertamento della verità, seppur doloroso e scomodo, non è un esercizio di vendetta nei confronti di questa o quella parte politica. È una delle virtù civiche più alte e deve coinvolgere tutta intera la nazione. La verità sulla trattativa, se c’è stata e chi l’ha condotta, non è una questione da poco. Accertarla è, secondo me, condizione necessaria per riprendere il cammino e per poter consegnare ai nostri figli una democrazia – ferita e sanguinante perché ha lottato – ma sana e robusta perché ha saputo “entrar dentro” la piaga.

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