Tornare a desiderare

Recenti pubblicazioni e il rapporto annuale del Censis utilizzano categorie della patologia psichica per spiegare un male profondo della società attuale. Che invoca testimoni da poter incontrare per ricominciare
Andreoli

  

Il rischio di essere costretti a recitare una parte nel copione dettato dalla cronaca degli scandali politici è serio. Inevitabile dividersi, anche se è davvero sprecato consumare le migliori energie su questioni che appaiono il fenomeno di qualcosa di più profondo su cui invece uno sforzo unitario andrebbe ben speso. Un recente libro di Vittorino Andreoli sul “Denaro in testa” permette di spostare l’attenzione dal parossismo delle cronache di carattere sessuale per andare alla radice di una società in cui, secondo lo psichiatra, l’uomo è ridotto in sostanza al denaro che possiede e che lo illude di non aver alcun limite. Il perfetto compimento di un’umanità ridotta ad una sola dimensione che esilia la ricerca del mistero sull’essere umano e rende inconcepibile l’ «etica della circostanza e del contesto».

Non è stato, infatti, un caso che il rapporto annuale del Censis, reso noto a fine 2010, abbia utilizzato alcune categorie della psicanalisi per poter offrire, «al di là dei fenomeni congiunturali economici e politico-istituzionali, una verifica di cosa è diventata la società italiana nelle sue fibre più intime». La definizione che ne è emersa ha un titolo che inquieta: «Inconscio collettivo senza più legge e desiderio». E la descrizione diviene impietosa quando si entra nel dettaglio, fotografando una realtà in cui non si riesce a riconoscere «un dispositivo di fondo che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori. Si afferma così una diffusa e inquietante sregolazione pulsionale con comportamenti individuali all’impronta di un egoismo autoreferenziale e narcisistico».

Ne è seguito un interessante dialogo pubblico «sulla condizione umana» tra Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, e uno psicopatologo, Massimo Recalcati autore di un testo ( L’uomo senza inconscio) da cui De Rita ha riconosciuto di aver tratto alcune intuizioni confermate, tra l’altro, dall’indagine sociologica che, alla fine, segnala l’emergenza di «tornare a desiderare» come «virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appiattita» e vincere il nichilismo dell’indifferenza generalizzata.

È quello scatto che manca, potremmo osservare, tra l’indignazione e il prendere parte, agendo di conseguenza.

Nell’epoca postideologica, mancando la funzione di orientamento di un «ideale», rimane trionfante solo un «godimento smarrito». Con il denaro a creare una dipendenza patologica collettiva, osserva Andreoli. Ma secondo Recalcati «per tornare a desiderare è necessario che ci sia un incontro con la testimonianza del fatto che si può esistere in questo mondo senza impazzire e senza volersi suicidare».

È un segno dei tempi questa lettura della società dal profondo che viene da studiosi della psiche. Così ad esempio il saggio di Luigi Zoja sulla “morte del prossimo”: «Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo». Una mancanza del «volto dell’altro» che comincia dal vicino di piano e diventa evidente, per Zoja, nel caso delle morti sul lavoro, dove certe volte non viene citato nemmeno il nome, o dei migranti di cui accettiamo la scomparsa nelle acque del nostro Mediterraneo «senza scomporci, senza indignarci, senza soffrire».

Dal denaro come patologia sociale alla scomparsa del prossimo ci sono parecchi elementi aperti alla testimonianza «incontrabile» di un lavoro comune.

 

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