Tonicka, piccola grande donna

Dalla prigione alla croce al merito. La fede e il coraggio di una terziaria francescana di nazionalità ceca
Antonie Hofmanová
«Sono nata il 13 giugno 1923, non ricordo nulla di quel momento, ma ripeto ciò che mi hanno raccontato quelli che erano presenti…». Così inizia Viviamo una volta sola di Antonie Hofmanová, conosciuta come Tonička. L’autobiografia di questa donna tanto amata, vissuta alle falde dei monti Sudeti, che separano la Repubblica Ceca dalla Polonia e dalla Germania, è un documento di poesia e storia, d’innocenza e di fede. Non è stata l’unica sua opera, lei ha scritto altri sette libri, uno dei quali racconta del suo periodo in carcere.

 

Nel 1948 l’allora Cecoslovacchia diventava uno dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica e ciò, a detta di Havel, «fu causa d’innumerevoli disgrazie e di tragedie personali».

 

La persecuzione dei cristiani ebbe un doloroso culmine nella primavera del 1950 con l’abolizione degli ordini religiosi. E perché il popolo imparasse la lezione ci furono molti processi-farsa a persone della Chiesa e a semplici fedeli.

 

Tonička, terziaria francescana, era venuta in contatto con molti intellettuali e teologi non allineati. Seppe dei “preti operai” che in Francia lavoravano nelle fabbriche e con l’idea di portare il Vangelo nei luoghi di lavoro fondò il gruppo “gioventù operaia cristiana”. Ciò non piacque ai comunisti. Quella donna, oltre ad avvicinare i giovani con l’insegnamento del catechismo, ora si dava da fare per mettere anche gli operai contro il regime. Così per Tonička arrivò il momento di dare prova della sua fede. Stava insegnando catechismo quando irruppero nella classe dei poliziotti per arrestarla. I bambini cominciarono a gridare. La lasciarono.

 

Un anno dopo andarono a prenderla a casa e le dissero che doveva ringraziare i bambini se non l’avevano presa un anno prima.

Processo e condanna a sei anni di reclusione per aver fondato un’associazione clandestina di operai, per aver insegnato catechismo e aver fatto propaganda prevalentemente tra i giovani. Sei mesi in cella d’isolamento, poi con detenute politiche. Più tardi con ladre e prostitute. Ammalatasi di tubercolosi, dopo tre anni fu mandata vicino a Praga.

 

Per Tonička la vita di prigione fu una grande lezione. Imparò a dare ordine alla sua giornata, preghiera, ripasso a memoria delle materie studiate a scuola: matematica, geografia, letteratura, storia. Per gli interrogatori si affidava allo Spirito Santo. Pensava piuttosto a quale barzelletta raccontare per alleviare i poveri poliziotti costretti a fare il brutto lavoro di terrorizzare il prossimo.

 

«Per me la prigione è stata una scuola di vita, una scuola di fede. Sono grata a Dio di questa esperienza che mi ha insegnato a distinguere cos’è importante e ciò che non lo è. Ci sono cose importanti e per queste bisogna dare la vita, anche andare in prigione. Il cristianesimo nei suoi duemila anni ha visto apparire e sparire molte cose. Il paradiso che i comunisti promettono sulla terra è segno dell’inconsistenza delle loro idee».

 

Fu rilasciata con il divieto di insegnare catechismo. Era infermiera, ma a Jilemnice tornò in ospedale come sguattera. Poi riprese la sua professione al reparto di medicina interna e continuò a chiamare il sacerdote per l’unzione degli infermi. La polizia ne fu informata e arrivò proprio mentre c’era un sacerdote tra i malati, ma Tonička quel giorno non era presente. Il medico di turno dichiarò che in genere era Tonička a chiamare il sacerdote, ma quel giorno era stato lui perché aveva osservato che «quando viene il sacerdote il malato ritrova la pace e muore bene».

 

Tonička fu costretta a lasciare il lavoro. Nel 1968, con la distensione portata da Dubček, non si risparmiò a insegnare catechismo in vari villaggi, ma la drammatica repressione dopo la “Primavera di Praga” significò un ulteriore divieto per lei, che continuò il suo apostolato come poteva. Tanti figli di iscritti al partito erano preparati da lei ai sacramenti che poi ricevevano in altro Paese.

Mise il suo appartamentino a disposizione dei parenti che venivano a trovare i bambini ricoverati nell’ospedale dove tornò a lavorare.

 

Tutti sapevano che la chiave era sotto lo zerbino o sotto un vaso. La gente entrava, si preparava un tè, si riposava un po’. Tonička però aveva un sogno: una dimora che accogliesse chi non aveva un tetto. Andata in pensione, riuscì a comprare una vecchia casa che con l’aiuto di amici ristrutturò in modo tale da offrire uno spazio dove i giovani potessero svolgere i loro incontri. «Penso sempre ai giovani perché so da quali pericoli sono minacciati. Chi riesce a mantenersi nella fede può vincere qualsiasi battaglia. Penso ai giovani quando leggo le parole di Paolo apostolo. Un uomo così nasce ogni mille anni e quanta saggezza i giovani traggono da lui!».

 

Le forze diminuivano, ma Tonička aveva imparato che bastava chiedere. Un giorno che aveva bisogno di aiuto si presentarono due testimoni di Geova. Lei li accolse: «Stamattina non potendo fare certi lavori urgenti, ho chiesto a Gesù di mandarmi qualcuno che mi desse una mano e siete arrivati voi». E quelli, sotto la sua direzione, cominciarono a sbattere il tappeto, portare legna e carbone, fare pulizie nella sala dei giovani e anche in cucina, dove lei aveva un angolo per dormire. Nonostante Tonička li avesse ringraziati dicendo che la casa era sempre aperta, quelli non si fecero più vedere.

 

Sempre affaccendata per gli altri, soltanto dopo dieci anni seppe che i dolori che di tanto in tanto sentiva erano un cancro, arrivato allo stadio finale. «Bisogna sapere prendere tutto dalle mani di Dio. È arrivata l’ora di congedarsi». Preparò l’annuncio di morte per 100 persone. Bisognava precisare soltanto la data della morte. Lei confidò al nipote Ivo, focolarino a Praga, il desiderio di non morire il primo venerdì del mese, perché «i preti sono troppo occupati». Poi c’erano le elezioni per l’Unione europea. E poi sarebbe stato giusto morire dopo l’arrivo della pensione. Il nipote le ricordò che la vera povertà per una terziaria francescana sarebbe stata morire il giorno prima della pensione. E lei: «Hai ragione, ma come provvidenza per il focolare, meglio morire il giorno dopo!».

 

Quando si avvicinò il giorno della votazione: «Portatemi qui l’urna, quella delle votazioni, non due. Non voglio essere cremata».   

Tonička si preparava a morire proprio nell’ospedale dove per tanti anni aveva lavorato. Una media di venti persone al giorno veniva a salutarla. Pur contro le regole dell’ospedale, il primario permise che si facessero turni di due ore di assistenza anche di notte per quella piccola grande donna, premiata come cittadina onoraria e insignita della croce al merito “Pro Ecclesia et Pontefice”, inviatale dal papa Benedetto XVI il 23 novembre 2007.

 

L’assistenza coinvolse una trentina di persone che si alternavano per pregare con Tonička e per leggerle il Vangelo. L’ultimo giorno lei fece avvertire il sacerdote per il “viatico” e così morire. Il sacerdote venne assieme a un altro per celebrare la messa. Siccome c’erano canzoni e chitarre, qualcuno stava chiudendo le porte, ma Tonička: «Non chiudete le porte, lasciatele aperte! Devono sentire e vedere come si muore». E alla comunione ricordò a una a una le persone incontrate nella vita. Quando morì era il 16 giugno.

 

Il funerale, affollato da amici e terziari francescani, fu celebrato da due vescovi e trenta sacerdoti. Il ricordino di Tonička riporta alcuni suoi pensieri sui giovani, sulla Chiesa, sulla famiglia, sulla necessità di «tornare a Dio, mettendolo al primo posto». Perché «la vita senza Dio non ha senso».

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