Teissier, vescovo degli algerini

È morto un uomo giusto, che non abbandonò il Paese maghrebino, il “ suo” Paese, nei tragici anni del terrorismo

Essere vescovo in un Paese musulmano al 98 per cento vuol dire sopravvivere. Oppure essere un profeta in modo esemplare: senza onori, né durante gli anni in cui esercitava la carica ecclesiastica, né dopo il pensionamento, in cui in non pochi pensavamo che fosse degno della porpora per meriti acquisiti sul campo; senza successi apostolici, visto che era ed è impossibile convertire dei musulmani al cristianesimo nelle terre del Corano; senza grande ascolto da parte del mondo cattolico europeo, per la sua inscalfibile propensione al dialogo islamo-cristiano; senza pace, perché il suo animo fino alla fine è stato tormentato; senza flessioni e compromessi, posto che il suo intransigente no alle trattative coi terroristi islamisti è arrivato a consumare una rottura fragorosa con chi, come Sant’Egidio, spingeva per la trattativa. Un profeta, dunque.

Lo incontrai per la prima volta nel 2005, alla Maison diocésaine di Algeri dove abitava, nei suoi modesti appartamenti, decorosi ma poveri, in cui il principale arredamento era costituito dalle “conformazioni geologiche” dei suoi libri, in francese certamente, ma soprattutto in quella lingua araba che tanto amava. Nella penombra di una primavera già calda, mi aveva conquistato senza volerlo fare, con la sua carità che ricopriva una fede tormentata ma salda, e una speranza che non ammiccava mai con l’illusione. Conversammo per tre ore, sembrava non avere altri interessi oltre alla mia compagnia. Poi non esitò ad accompagnarmi con la sua utilitaria a far conoscenza coi suoi amici musulmani. Ricordo che mi fece incontrare due donne islamiche, molto amiche tra di loro, una velata e una svelata, come a farmi capire coi fatti che l’Islam era sì un’unica religione, ma plurale.

La biografia del profeta Teissier parla da sola. Vestiva in borghese – una crocetta appuntata sul risvolto della giacca ce l’aveva comunque –, il suo abito era una testimonianza di amore per quel popolo che era diventato il suo. Dal 1966 mons. Teissier, nato a Lione nel 1929, era infatti algerino di nazionalità. Sacerdote dal 1955, aveva studiato a Rabat, Parigi, il Cairo, Aix-en-Provence. Vescovo di Orano dal 1972 al 1981, era stato coadiutore ad Algeri fino al 1988, allorché era stato nominato arcivescovo della capitale algerina, fino al 2008.

Mons. Teissier ha attraversato con la Chiesa algerina la terribile crisi terroristica che il Paese ha vissuto negli anni 1993-2000. Diciannove religiosi erano stati assassinati tra il 1994 e il 1996, tra cui il vescovo di Orano, Pierre Claverie, e i monaci di Tibhirine. Nonostante prove e minacce, Henri Teissier era sempre rimasto in Algeria con l’unica ambizione di scoprire e suscitare fratellanza. È morto a Lione il primo dicembre. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra cui Eglise en Islam (1984), Lettres d’Algérie (1998) e Chrétiens d’Algérie, un partage d’espérance (2002).

Mons. Teissier mi regalò – sì, posso dirlo, fu un dono – una delle più belle interviste della mia carriera. Tra l’altro, mi disse: «La più grande gioia di questi anni è stata in certo modo contemporanea alla crisi del terrorismo, soprattutto a partire dal 1997, periodo nel quale abbiamo visto moltissimi algerini che si sono avvicinati a noi, trovando proprio qui, alla Maison diocésaine un luogo dove si poteva vivere un incontro liberatore all’interno di una casa della Chiesa. Qui, attorno a questo tavolo, ho ricevuto una quantità impressionante di algerini, a gruppi di una dozzina alla volta, che spesso non si conoscevano nemmeno tra di loro, ma che trovavano qui un luogo di libertà per porsi reciprocamente quelle domande che erano importanti per l’avvenire, e di farlo alla presenza di cristiani. Una grande gioia che dura ancora, quella di vedere che ci sono molte persone assieme alle quali si può cercare un avvenire umano aperto all’altro, malgrado la persistenza delle correnti contrarie».

E ancora: «Tutta la nostra esistenza, della nostra Chiesa d’Algeria, dimostra che l’incontro è possibile. Dall’indipendenza abbiamo ereditato una Chiesa in fondo coloniale. La società algerina ha ovviamente rigettato tutto ciò che era eredità di quel passato, e così, assai rapidamente, già con il cardinal Duval, si è fatta la necessaria distinzione tra l’eredità coloniale e la Chiesa. La nostra Chiesa, anche se è nata dal e nel periodo coloniale, ha saputo fondare una relazione rispettosa con l’Islam, coi musulmani, impegnandosi a fianco della popolazione algerina nella difesa dei diritti dell’uomo e su altri temi come l’indipendenza dei Paesi del sud, la situazione della Palestina, gli immigrati, la difesa dei diritti dei musulmani ad essere essi stessi anche in Occidente… Credo che abbiamo permesso alla nostra Chiesa di esistere anche all’interno della società algerina, attraverso dei piccoli gesti semplici di condivisione e di coabitazione distesi nel tempo».

Passeggiando sotto i pini odorosi del giardino un po’ trascurato della Maison diocésaine, mons. Teissier si schermiva e quando ammiravo il suo coraggio, non aveva dubbi: «Chi cerca di vivere il Vangelo non può che accettare il velo della paura, senza volerlo squarciare, ma senza nemmeno farsi soffocare. Attraverso quel velo il Cristo appare sempre dinanzi a noi».

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