Taglio dei parlamentari e legge elettorale

Maggioranza schiacciante (533 a favore , 14 contro, 2 astenuti) nel voto finale della riforma costituzionale fortemente voluta dal M5S che porta da 945 a 600 il numero complessivo di deputati e senatori. Improbabile la possibile indizione di un referendum nei prossimi 3 mesi. Tutto si gioca sulla nuova legge elettorale
ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Con una larghissima maggioranza la Camera, nella seduta di martedì 8 ottobre 2019, ha approvato in quarta lettura la riforma costituzionale che prevede il taglio di 345 parlamentari: 115 senatori e 230 deputati. Si tratta di uno dei punti imprescindibili del governo Conte 2, tanto che anche il Pd e Leu hanno votato a favore nonostante il parere contrario nelle precedenti 3 votazioni previste per approvare una variazione sostanziale del testo della Costituzione.

Una vittoria inequivocabile per il M5S che si appresta a celebrare nel fine settimana a Napoli il decimo compleanno di una formazione politica che è risuscita a diventare, in così poco tempo, il partito di maggioranza relativa in Italia.  La soddisfazione si è poi esternata anche con una sorta di mob che ha visto i rappresentanti pentastellati radunarsi davanti al Palazzo in una coreografia fatta di poltrone e mega forbici in cartone.  Come hanno scritto sul Il Blog delle Stelle «La riduzione di deputati e senatori era un punto fondamentale del nostro programma e lo abbiamo imposto all’agenda della politica e dei partiti, andando avanti nonostante lungo la strada abbiamo dovuto superare resistenze e tentativi di sgambetto».

Gli unici che si sono opposti fino alla fine sono stati i radicali presenti all’interno del gruppo di Più Europa, ma sembra davvero impossibile immaginare che riescano a trovare entro 3 mesi il consenso necessario per proporre un referendum confermativo. Servirebbe la firma di 500 mila elettori, oppure la richiesta di 5 consiglieri regionali, o ancora l’istanza di 126 deputati o 64 senatori. Ma anche in sede di consultazione referendaria, svincolata dal raggiungimento del forum, è pressoché certa una prevalente volontà popolare animata da un sentimento anticasta, cioè contro le famose “poltrone”, tagliando le quali si stima un risparmio di 100 milioni di euro all’anno. Risorse destinabili, come dai cartelli esposti dai 5 stelli vittoriosi, ad esempio a favore del piano degli asilo nido.

Ma ovviamente non è il semplice risparmio finanziario, raggiungibile in altro modo, a costituire la motivazione trainante di una riforma complessiva che prenderà la forma definitiva con la nuova legge elettorale attesa entro dicembre e la ridefinizione dei collegi elettorali oltre ai requisiti richiesti per l’elettorato passivo e attivo nelle due Camere. Il M5S ci tiene a ricordare che hanno «sempre considerato sacro il ruolo del Parlamento» e quindi la sfida resta quella di confermarne il ruolo centrale, non subalterno all’esecutivo.

Anche chi come il renziano , ex Pd, Roberto Giachetti ha votato a favore della riforma per disciplina di partito, ha annunciato che intende sostenere la proposta di referendum che tenterà di portare avanti ad esempio Riccardo Magi, deputato di Più Europa, che è intervenuto in aula per affermare di non vedere alcuna «tensione costituente», ma «un parlamento che sfregia se stesso in preda ad un delirio demagogico» per votare una legge decisiva «senza un orizzonte di senso, portata avanti al costo – questo sì, caro – della compressione del pluralismo e dell’amputazione della rappresentanza democratica». Di tutt’altro avviso la destra di Fratelli D’Italia, che pur dall’opposizione, può dire, con Giorgia Meloni, di aver sempre sostenuto la riforma perché «diminuire il numero di deputati e senatori è un primo passo per ridurre la distanza tra i cittadini e il palazzo ma non basta assolutamente. Due i passi da compiere: l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e l’abolizione dell’istituto ottocentesco dei senatori a vita».

Se di svolta presidenzialista al momento ne parlano in pochi, è certo che ormai il terreno di confronto si sposta sulla legge elettorale. Così il costituzionalista Stefano Ceccanti, deputato del Pd, ritiene decisamente esagerati i timori dei pochi critici della riforma costituzionale approvata a larga maggioranza, ma riconosce che «in particolare al Senato, per evitare problemi di rappresentanza nelle Regioni medie, la conseguenza più naturale è quella di un sistema a base proporzionale e, con questi numeri, i collegi uninominali sono sconsigliabili perché avrebbero un grande numero di elettori. Tuttavia a partire dalla base proporzionale si può andare sia in direzione di un sistema che sbarra in modo forte ma non aggrega (sistema a soglia alta) o di uno a doppio turno con premio che riscrive l’Italicum secondo le indicazioni della Corte (coalizioni, anche ulteriori tra un turno e l’altro).  Decidere tra questi due modelli molto diversi spetterà alla politica».

Da parte sua La Lega di Salvini ha votato a favore della riduzione del numero dei parlamentari, una sua proposta del 2012 chiedeva di portare addirittura a 200 il numero dei deputati, ribadendo la necessità di andare al voto molto prima del 2023 per esprimere la maggioranza reale del Paese. La vera sfida è dunque la definizione di un sistema elettorale coerente con la Costituzione, definito con una larga partecipazione popolare prima ancora che nel dibattito tra i vertici dei partiti. Senza colpi di mano e soluzioni affrettate o confezionate ad arte per privilegiare una parte politica sull’altra, una delle ragioni della crescita dell’astensionismo e della instabilità di lunga durata.

 

 

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