Ritorno alla normalità o un altro modo di pensare la scuola?

Le riflessioni di uno studente di 17 anni del quinto anno del liceo classico F. Vivona di Roma. L'articolo fa parte di una rubrica che affronterà la riapertura della scuola dopo l'emergenza sanitaria
Scuola, AP Photo/Jean-Francois Badias

 

«Homo homini lupus», cioè l’uomo è lupo per l’uomo, sentenziava un tempo il filosofo inglese Thomas Hobbes: a buon diritto credo che per molti, dopo il periodo di chiusura, essa sia divenuta «Homo sine homine lupus», l’uomo è lupo senza l’uomo.

Ciò che, infatti, è stato forse patito più di tutto durante il lockdown è la perdita di un elemento che è una delle prerogative massime dell’uomo: la socialità. La fase della quarantena è stata, infatti, un periodo caratterizzato da un vasto fenomeno di taglio di relazioni a livelli più disparati: relazione con gli altri, relazione con il tempo, con lo spazio, con l’ambiente.

Ha avuto luogo, cioè, un largo fenomeno di isolamento, almeno per me, quale non si era mai visto in precedenza: il mondo era un susseguirsi uniforme di un flusso di impressioni, di sensazioni che accesesi la mattina si ritrovavano immediatamente la sera a doversi spegnere come erano iniziate. Il tempo susseguiva come una corrente unica di eventi in cui tutto sembrava evanescente, onirico, inconsistente: le strade deserte, contatti assenti, uscite al supermercato che sembravano spedizioni belliche.

Il tempo pareva essersi fermato, il mondo essersi bloccato per mesi in un silenzio che per molti è stato rotto dall’urlo del dolore dei propri cari. È stato un periodo che ha comportato grandi ripensamenti, grandi sfide, tanto etiche quanto tecnologiche. È stato un periodo che ha richiesto un senso di responsabilità nel tornare ad affrontare il mondo fuori dalla prigione domestica, un periodo che però ha dato ai singoli la possibilità di caricarsi sulle spalle una consapevolezza e una maturità diversa. Ciò è quello che ora la riapertura della scuola richiede.

Credo sia meglio definire quanto stiamo vivendo una riapertura piuttosto che un ritorno alla normalità: troppe situazioni sono cambiate, troppe persone venute meno, troppo diversi siamo noi ora. Viviamo, o almeno io vivo, in un mondo di eventi confusi, indistinti, sospesi in un nulla che deve ancora avvenire.

Il mio primo ritorno sui banchi è avvenuto qualche giorno prima del suono della campanella, il 1° settembre, in occasione di un incontro con la vicesindaca della città metropolitana di Roma. Anche in quell’occasione tutto mi sembrava cristallizzato: che sia forse tipico della natura umana cercare di non legarsi troppo a quello che ha tenuto caro temendo che possa venirgli meno? Penso che tutti abbiano ancora paura di perder la scuola di nuovo, abbiano il timore che quello di adesso sia un ritorno mozzato ad una scuola che ancora, purtroppo, è solo una parvenza, un’eidolon, di ciò che abbiamo lasciato.

A un bambino viene misurata la temperatura all'entrata a scuola (Cecilia Fabiano/ LaPresse)
A un bambino viene misurata la temperatura all’entrata a scuola (Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Tutto pare ancora sospeso, il futuro appare dai contorni sfumati, il tempo scorre per settimane e non più proiettandosi verso mesi lontani, che sono ancora un forte interrogativo. Pesa troppo ancora la possibile crescita della curva epidemiologica. Cerchiamo allora di carpire i frutti del presente. La scuola è stata, infatti, anche la tanto agognata uscita dai nostri isolamenti: è stato il luogo in cui rivedere i nostri occhi in quelli degli altri, il momento in cui riprendere a vivere relazioni, collegamenti, che ci hanno spinto fuori dalle isole in cui siamo stati costretti a vivere. Ci è stata ridata l’ineliminabile dimensione sociale dell’uomo, che abbiamo spesso ripudiato, ma che tanti stanno ricominciando a rivalutare come necessaria.

Ci è stato restituito l’aspetto del dialogo che anch’esso ci rende uomini: il rapporto diretto con l’insegnante ha permesso di ridare vigore al sapere, di restituirgli quella vitalità che viene dal confronto diretto e dialettico tra più esseri umani. Il vero sapere è quello aperto, vivo, in evoluzione, il confronto attivo tra le conquiste conoscitive del passato e chiunque voglia innalzare loro nuovi monumenti. Non mancano, poi, alcuni utili mezzi tecnici come gel, mascherine e computer in comodato d’uso. Ciononostante si può migliorare, e lo si sta gradualmente facendo, su alcuni aspetti: mancano banchi, insegnanti, spazi e in alcune aule la connessione ad internet è spesso precaria. Ancora bisogna cercare di permettere un confronto più solido tra chi rimane a casa e chi svolge lezioni in presenza, spesso impedito da problemi di audio che a volte non risparmiano nemmeno i professori.

La gestione degli spazi rimane tuttora un tassello complicato: per stare in presenza, si è data la priorità alle classi prime ma non alle quinte, come in altre scuole, e si sta ancora lavorando su come si possano garantire in sicurezza le iniziative studentesche. Non si può comunque sottovalutare l’enorme sforzo dell’istituzione scolastica per permettere agli studenti di ritornare in sicurezza e di riavere la speranza di potersi svegliare il giorno dopo guardando gli occhi di un compagno piuttosto che uno schermo.

Il ritorno a scuola, poi, è stato per me in particolare la coscienza di un cambiamento: quello tra l’adolescenza ormai al tramonto e il mondo degli adulti agli albori. La quarantena è stata nel bene e nel male una violenta cesura, uno spartiacque tra un mondo passato legato ad un contesto adolescenziale e quello di una responsabilità adulta. Quest’anno davvero il nostro esame di maturità sarà ben altro: sarà dimostrare di testimoniare nella nostra vita, nei fatti ancora più che a parole, i valori dell’Humanitas, i valori dell’aiuto, dell’altro, della vita.

Ora più che mai è necessario tenere alla vita degli altri quanto se non di più della nostra: spesso persone della nostra età si son rese veicoli di morte per altri più fragili e più deboli. È necessario comprendere che con una mascherina sul volto si può preservare la vita di un altro, che con la cultura, con le relazioni, si può riprendere a vivere più che a sopravvivere in una realtà nella quale ci sentiamo catapultati, forse un po’ troppo bruscamente, ma nella quale stiamo imparando a muoverci. Credo sia quindi necessario costruire con la nostra virtù gli argini contro le sciagure che ci circondano, dando l’ultima parola non alla sventura, alla morte, alla barbarie, ma alla luce della cultura e della vita. Concludo con le parole del poeta tedesco Hölderlin, che davvero rappresentano il modo con cui ritengo dovremmo attraversare questo mare in tempesta, nella speranza e nella sicurezza di raggiungere prima o poi un porto sicuro: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva».

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