Sudan in cammino verso la democrazia

Svolta in uno dei Paesi che appena un anno fa veniva considerato tra i più duri regimi al mondo. La mediazione del premier etiope e la forza delle donne
Abdalla Hamdok, primo ministro del Sudan

Nell’intricata situazione sudanese, dopo la svolta dell’11 aprile con l’arresto ad opera dei militari del dittatore Omar al-Bashir, per 30 anni al potere, non sono mancati momenti duri e di grande tensione fra militari e civili, con arresti, feriti e morti, soprattutto a maggio-giugno. Le proteste popolari di massa erano iniziate nel dicembre 2018, ma solo nell’agosto scorso, civili e militari sono riusciti a trovare un accordo, mediato dall’Unione africana e dall’Etiopia. Si sono così formati due organi temporanei di governo del Paese, il “consiglio sovrano”, presieduto dal generale al-Burhan, e il “governo”, guidato da Abdalla Hamdok, ex vice segretario economico delle Nazioni Unite per l’Africa.

Il consiglio sovrano, che svolge un compito di presidenza collegiale dello Stato, è formato da 11 membri, 6 civili e 5 militari. Gli accordi prevedono anche l’istituzione di un organo legislativo, una sorta di parlamento temporaneo, la cui maggioranza sarà garantita dalle Forze per la dichiarazione della libertà e del cambiamento, la principale coalizione politica che punta alla democrazia, e che è espressione della società civile e di varie realtà sociali del Paese. Secondo gli accordi di agosto, inoltre, gli organi legislativi, come la presidenza dello Stato e il governo, saranno oggetto entro tre anni di regolari elezioni democratiche. Un’interessante nota riguarda la presenza delle donne nell’assemblea legislativa: secondo gli accordi di agosto le donne dovranno rappresentare almeno il 40% dei membri.

È di giovedì 28 novembre scorso la decisione delle autorità di transizione del Sudan di dichiarare sciolto il Partito del congresso nazionale dell’ex dittatore. La decisione ha messo fuori legge anche i simboli del regime ed apre la strada al sequestro dei beni di proprietà del partito. Il presidente del consiglio sovrano, generale Abdel Fattah al-Burhan, aveva dichiarato la settimana precedente, che al-Bashir, detenuto in un carcere sudanese, non sarà estradato e consegnato alla Corte penale internazionale (Cpi) che lo accusa di crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio (Darfur). Verrà processato in Sudan per queste imputazioni e per corruzione. Tra le accuse nei suoi confronti, non ultima è quella di appropriazione di fondi pubblici (gli sarebbero state trovate valige contenenti qualcosa come 130 miliardi di dollari in contanti).

Un’altra scelta importante del governo di transizione guidato dal primo ministro Hamdok è stata l’abrogazione delle cosiddette norme per l’ordine pubblico, in particolare quelle contro le donne, istituite da al-Bashir adottando una lettura restrittiva della shari’a islamica: per l’arresto e la fustigazione (fino a 40 frustate) era sufficiente che una donna partecipasse a una festa privata o indossasse pantaloni o gonne ritenute indecenti, o che il velo islamico venisse portato in un modo giudicato immodesto, a totale arbitrio dei giudici. Nel solo 2016, sulla base di queste imputazioni erano state denunciate 45 mila donne, soprattutto studentesse e lavoratrici.

Le donne sudanesi hanno avuto un ruolo determinante nella mobilitazione popolare che ha portato alla caduta del regime di al-Bashir. Nella grande manifestazione di dissenso dell’8 marzo a Khartoum, la maggioranza dei dimostranti erano donne che sfilavano cantando: «Libertà, dignità e giustizia». Il 10 ottobre, quasi come riconoscimento del contributo dato dalle donne sudanesi alle proteste popolari, il Consiglio Supremo ha nominato una donna, Neemat Abdallah Mohamed Khair, presidente della “suprema corte”. È la prima donna nella storia del Sudan che diventa capo del sistema giudiziario.

L’avvio del processo di stabilizzazione democratica del Paese deve molto alla mediazione dell’Etiopia, in particolare del primo ministro Abiy Ahmed Ali (al quale è stato assegnato in ottobre il Premio Nobel per la pace 2019), che si è adoperato anche per chiedere agli Usa la rimozione del Sudan dalla lista degli stati sponsor del terrorismo internazionale. Il nuovo corso sudanese è stato accolto con favore dai principali Paesi arabi della regione, in particolare dall’Egitto e dagli Emirati (Eau), questi ultimi peraltro inizialmente preoccupati della caduta del regime di al-Bashir a causa dei notevoli investimenti economici attuati negli anni scorsi dagli emiratini in Sudan e per il venir meno del supporto militare del regime sudanese alla coalizione a guida saudita, impegnata dal 2015 nel tragico conflitto yemenita.

 

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