Stati Uniti, la fine della supremazia?

Il rischio di un mancato accordo sull'aumento del debito Usa preoccupa il mondo intero. Il commento di Benedetto Gui, docente di economia
obama and workers

Le ragioni del dibattito parlamentare a Washington sui rischi economici che gli Usa stanno correndo in questi giorni vanno ricercate nel lontano 1917: risale infatti a quell’anno il Second liberty bond act, con il quale il Congresso impose al governo un tetto massimo alla quantità di debito pubblico. Debito che, come certificato dal segretario al Tesoro Timothy Geithner , lo scorso 6 maggio, si appresta a raggiungere la fatidica soglia dei 14.290 miliardi di dollari, per effetto di un deficit tra entrate e spese federali di circa 125 miliardi di dollari al mese.

 

Ogni volta che il governo intende sforare il tetto previsto deve ottenere l’autorizzazione parlamentare: ed è lì che le ragioni della finanza e quelle della politica possono trovarsi in conflitto. Un mancato accordo significherebbe l’impossibilità di rifinanziare molte delle spese correnti, ma anche di pagare gli interessi su questo debito: in altre parole, un default, come nel caso greco.  Anche se c’è una differenza precisa l’economista Benedetto Gui: « Il default greco nasce dal fatto che nessun paese fa più credito alla Grecia perché sa che non potrà ripagarlo, ma per gli Stati Uniti sarebbe ben diverso: si imporrebbero di rinviare i pagamenti e si metterebbero dei limiti».

Nulla toglie che il mondo resti con il fiato sospeso per le pesanti ripercussioni che a livello internazionale potrebbe avere una tale eventualità. Continuiamo l’approfondimento con il professor Gui.

 

La notizia di oggi è la forte preoccupazione espressa da Pechino, esposta per mille miliardi di dollari in titoli di Stato americani: davvero un default Usa avrebbe un effetto domino su tutto il mondo?

«Non credo succederebbe niente di così violento: gli Stati Uniti non sono un Paese che non riesce a finanziarsi e i tassi sui loro titoli, strumento sicuro per eccellenza, sono sempre rimasti bassi. È una questione interna,  un conflitto  tra gli organi decisionali. Un conflitto, però, che certamente nuoce al ruolo degli Usa come soggetto che finora ha goduto della fiducia più elevata da parte dei suoi creditori. Mi sembra  un ulteriore segno del declino della  supremazia americana nel mondo: accumulando un grande debito per consumare di più, hanno finito per dipendere dalla disponibilità altrui a finanziarli; ora, mostrandosi divisi, si presentano anche come dei debitori poco affidabili. In quanto alla Cina, avendone finanziato così tanto, è chiaramente interessata alle sorti del debito pubblico americano, e certamente collaborerà per evitare scossoni.. ».

 

Quanto hanno inciso su questo debito le spese militari?

«Indubbiamente sia la guerra in Iraq che quella in Afghanistan hanno pesato molto. «Dobbiamo tenere conto che gli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, hanno avuto a lungo un eccesso di esportazioni sulle importazioni. Negli ultimi vent’anni, però, la situazione si è invertita: da Paese creditore sono diventati Paese debitore verso il resto del mondo».

 

 

Dal 1962 un aumento del tetto del debito è stato già autorizzato ben 74 volte… Lei pensa che davvero questa volta non lo autorizzeranno?

 

«Tutti capiscono che il problema della crescita del debito pubblico, che è aumentato per decenni, non si può risolvere da un giorno all’altro strangolandosi ad un vincolo rigido. Tra l’altro gli stessi Repubblicani, che ora si oppongono, avevano ripetutamente approvato un aumento del tetto del debito sotto la presidenza Bush. D’altra parte è necessario che anche gli USA, come l’Italia, si impegnino seriamente ad un percorso di riduzione debito, il che significa ridurre le spese ed aumentare le entrate.

 

Su come far questo, però,  le posizioni dei partiti sono molto diverse: i democratici propongono di alzare le tasse ai redditi più elevati, mentre i Repubblicani vogliono tagliare la spesa per il welfare. –Su questo una parte dei parlamentari repubblicani, quelli del cosiddetto Tea Party , ha preso una posizione estremamente rigida, che ha impedito fin qui di raggiungere un compromesso tra le due posizioni. Spero che alle fine un accordo lo trovino, ma questa mancanza di flessibilità, inusuale nel sistema americano, ha già molto danneggiato la credibilità degli Stati Uniti».

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