I soldati italiani tornano nel deserto

Nel Sahel arrivano anche le nostre forze armate per combattere il terrorismo jihadista e (soprattutto) fermare i flussi migratori. Luci ed ombre del progetto

Il 13 dicembre, a La Celle-Saint-Cloud, in un castello alla periferia di Parigi, si è tenuto un incontro promosso dall’iperattivo presidente francese Emmanuel Macron, denominato G5 per il Sahel, cui erano invitati i presidenti di Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania, per decidere l’entità e le modalità della forza antiterrorista presente nella regione. Con l’obiettivo duplice di combattere le milizie terroristiche che imperversano nel Deserto del Sahara e bloccare i flussi migratori che finiscono in Libia e poi in Europa, via soprattutto l’Italia. I 5 Paesi sono sostanzialmente la “cintura” attraverso cui passano i migranti diretti in Europa, prima di giungere al “buco nero” libico, dove la perenne conflittualità impedisce alle autorità, e soprattutto alle polizie europee, di agire efficacemente: gli accordi firmati con una fazione vengono smentiti da accordi tra altre fazioni, e un accordo firmato oggi non è detto che domani rimanga valido se cambiano le alleanze. Il nostro ministro Minniti se ne è ben reso conto.

G5 Sahel support meeting press conference - La Celle Saint Cloud

Nel castello di La Celle Saint Cloud, nel dipartimento delle Yvelines, non erano presenti solo i 5 presidenti africani attorno a quello francese –Ibrahim Boubacar Keita (Mali), Roch Kaboré (Burkina Faso), Idriss Deby (Ciad), Mahamadou Issoufou (Niger) e Mohamed Ould Abdelaziz (Mauritania) – ma anche rappresentanti dell’Unione europea e dell’Unione africana, i capi di governi tedesco, belga e italiano, oltre che rappresentanti statunitensi, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. Una congrega di alto livello, convocata dal presidente di un Paese che è impegnato da anni nella zona per combattere gruppi jihadisti, che spesso si mescolano a gruppi non naturalmente terroristi che esprimono il malcontento delle popolazioni locali o rivendicazioni etniche del posto. Movimenti e azioni che tendono a destabilizzare i governi locali, sostanzialmente legati a doppio filo con gli ex coloni francesi.

Mali France President Macron

La zona che viene particolarmente monitorata è quella “delle tre frontiere”, all’incrocio tra Mali, Niger e Burkina Faso, dove sono presenti 4.500 soldati francesi nel quadro dell’operazione “Barkhane”, con sede centrale in Mali, a Sevare. Da ora in poi l’operazione coinvolgerà personale militare che opera sotto altre bandiere sotto il nome “Haw Bi”. 5 mila soldati presidieranno la zona, tra cui 470 soldati italiani, che inizieranno la loro attività con 150 effettivi in un’operazione bilaterale con il Niger, che Gentiloni ha così definito: «Ci impegneremo per l’addestramento di forze che possano contribuire alla stabilità e alla lotta contro il terrorismo in Sahel. Partiremo con un’operazione bilaterale con il Niger che ha un interesse specifico pure per quello che riguarda i flussi migratori verso la Libia e verso il Mediterraneo. Dietro questo impegno c’ è anche quello al contrasto del traffico di esseri umani».

Qualche riflessione appare necessaria. Innanzitutto va sottolineato che la preoccupazione dei governi rappresentati è aumentata notevolmente sul fronte terroristico dopo la fine del Daesh in Siria e Iraq (si prevede che alcune centinaia di combattenti ripieghino nella zona), e sul fronte migrazioni dopo il sostanziale fallimento degli accordi di polizia in Libia.

Il territorio desertico, però, richiede addestramenti particolari e una forza logistica notevole. Per questo l’impegno militare richiesto non è secondario: basti pensare a come potranno essere instradati i 150 mezzi che l’Italia invierà nella regione, sbarcandoli in Benin e poi facendoli proseguire con un viaggio estremamente lungo e difficile fino alla zona “delle tre frontiere”.

Altra questione: i francesi, finora gelosissimi della loro presenza nella regione ex-coloniale francofona, non hanno mai voluto altre presenze straniere. Macron ora ha cambiato strategia, probabilmente sotto la spinta dei costi, delle difficoltà logistiche e anche di una visione maggiormente pan-europea. Un altro segnale della novità di alcune scelte macroniane.

Da sottolineare poi la presenza al G5 per il Sahel dei rappresentanti sauditi, degli Emirati e degli Stati Uniti. La loro presenza era stata auspicata per motivi strategici ed economici: come trovare, infatti i 400 milioni di euro necessari annualmente per mantenere la forza di “Haw Bi”? I sauditi verseranno 100 milioni di euro, gli Emirati 30, gli Usa 60, l’Ue 50, i Paesi del Sahel 10 l’uno… Rispetto alla riunione di febbraio, di passi avanti se ne sono fatti molti, in quanto a finanziamenti. E la scelta anti-terroristica dei nuovi corsi di governo nella penisola arabica sembrano confermati.

Mali France President Macron

Ci si interroga egualmente sull’efficacia della presenza di soldati stranieri nella regione. Se la loro attuale azione appare abbastanza efficace sul fronte della lotta antiterroristica, meno si può dire per quella anti-migranti. La presenza italiana avrà in primis questa finalità di contrasto ai flussi migratori. Ma non è detto che soldati impreparati al deserto come i nostri possano essere veramente efficaci una volta sul terreno. Come agiranno? Ovviamente non spareranno sui convogli di migranti, ma come agiranno, secondo quali “protocolli d’ingaggio”? Come costringeranno i candidati immigrati in Europa a tornare alle loro case? Certamente il traffico di esseri umani deve essere interrotto, e quindi una forza di polizia è necessaria nei confini infiniti del deserto. Ma le forze straniere dovrebbero essere al servizio di quelle del Niger, burkinabé o maliane.

Ma è qui che casca l’asino: la missione degli europei, sostenuti da arabi e statunitensi, rischia di essere guidata dalla consueta mentalità colonialista, direi piuttosto neocolonialista (era proprio necessario incontrarsi per il G5 in un castello, simbolo della mentalità colonialista dei regimi europei?), in cui ovviamente, per la sproporzione dei mezzi tra le parti impegnate nell’operazione, il comando sarà sempre e solo franco-europeo, relegando i soldati e le intelligence locali a una funzione secondaria di supporto. Il dossier è da monitorare: l’Europa non può permettersi altri scivoloni in materia di diritti umani e non può più sostenere una mentalità che non lasci le giuste responsabilità agli autoctoni, come da tutti affermato nel recente vertice di Abidjan.

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