Sogni e realtà in un campo di pallone

A partire dalla storia di Pelè. Il rapporto tra lo sport calcistico e il cinema in uno sguardo integrale alla produzione filmica per cercarne la cifra espressiva della condizione umana 
Pelè

Arriva Pelè sul grande schermo e riporta a galla un antico problema del cinema: la sua incapacità di restituire la magia del calcio. Non sa spiegare, la settima arte, perché una palla che rotola e rimbalza, inseguita e calciata da due schieramenti in calzoncini, appassioni fino a ipnotizzare miliardi di individui.

 

Soprattutto,  il cinema non regge il confronto con il vero: non ce la fa, quando ricostruisce spezzoni di partita, a mozzare il fiato come fanno i calciatori veri. Possiamo dirlo con più sicurezza oggi che anche Pelè ha il suo bel biopic: tra cinema e calcio non corre buon sangue. Non esageriamo, potrebbe ribattere qualcuno, è solo che mancano i film dei grandi registi sull’argomento, altrimenti te lo do io il rapporto conflittuale. Dunque vediamo, il film sul Grande Torino, Ora e per sempre,  l’ha girato Vincenzo Verdecchi; quello su George Best, intitolato semplicemente Best, l’ha diretto una certa Mary Mc Guckian; quello su Maradona, La mano de Dios, l’ha fatto Marco Risi.

 

Nessun grandissimo regista, dunque, anche se l’ultimo dei tre citati è bravo, e una bella biografia per il cinema l’ha realizzata eccome: quella sul giornalista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra nel 1985. Indizio importante, testimonianza di come esistano terreni più favorevoli per la fioritura di un buon film ed altri più insidiosi. Del resto, non è facile nemmeno spiegare dove risieda la bellezza intrinseca del calcio, figurarsi poi andare a ricostruirla con la finzione. Qualcun altro potrebbe rafforzare, contestandola, la precedente riflessione, spiegando che i lavori dei grandi registi sul calcio esistono eccome e, pure se pochi, già bastano a ridare un po’ di pace a questo difficile rapporto. Quali sono? Il maledetto United di Tom Hooper (quello dei quattro Oscar “pesanti” per Il discorso del Re) o Il mio amico Erik di Ken Loach, dove “gioca" il grande Eric Cantona. Con calma, ragioniamo: il primo narra la storia di un allenatore, Brian Clough, uno che parla, che motiva, che organizza.

 

E’ la storia, quindi, non di un atleta, ma di una psicologia complessa, di un carattere particolare, di un uomo forte e insieme fragile. La forza del film è in gran parte esterna alla cronaca sportiva, al reportage sul calcio inglese degli anni ’70, per altro ben ricostruito. Il secondo, senza dubbio un capolavoro, è soprattutto un film politico, un’opera sulla bellezza e sulla forza della solidarietà tra i più deboli. E’ il ritratto, perfettamente  loachiano, al di là dell’insolito aspetto visionario adoperato dal regista, di una vita difficile tra gli strati più bassi della società inglese. Non tanto un film su Cantona, quanto un film con Cantona, anche se del calcio viene raccontato bene l’aspetto del tifo, quello meglio narrato dal cinema, finora. La realtà dolorosa del postino protagonista viene lenita, come quella di moltissime persone al mondo, dalla passione per una squadra di calcio, dall’ammirazione per un fuoriclasse, per un campione che regala emozioni positive.

 

Da questo punto di vista esistono altre cose buone, come Febbre a 90° di David Evans, sulla profonda passione di un professore di letteratura per la squadra dell’Arsenal. Stiamo sempre lì, però, racconti di sentimenti, di vissuti umani, prima che di estetica calcistica. Fermi tutti, ecco il titolo che smonta quanto detto fino ad ora. Vale a dire? Maradona di Emir Kusturica, stupendo ritratto del Pibe de Oro. Vero e falso insieme. Vero perché fantastico film di un grande autore e meraviglioso racconto dell’atleta, del genio sportivo, oltreché dell’uomo. Restituzione cinematografica della bellezza intrinseca del gioco del pallone. Falso perché il regista non lo fa con la finzione, ma col repertorio, e allora il problema rimane, e per trovare una credibile sequenza di calcio giocato, bisogna accontentarsi di Ultimo minuto di Pupi Avati, con quel finale in cui il giovanissimo Paolo Tassoni (Marco Leonardi) salva la sua squadra con un goal, sostenuto, però, ed ecco la “realtà” che torna, dalla soave voce di Enrico Ameri.

 

Nell’attesa del film rivoluzionario che faccia decollare questo amore, della pellicola potente che non rinunci alle ambizioni realistiche, continuiamo ad accontentarci di film spesso commerciali sul gioco più bello del mondo, che adoperano il calcio per raccontare il costume, per fotografare il Paese che cambia, quando non esclusivamente per costruire gag comprensibili da tanti. Speriamo di poter ritrovare, in questo tempo di attesa, un po’ della freschezza e della scoppiettante comicità che appartenevano a L’allenatore nel pallone del 1984, il primo, quello di Sergio Martino, quello di Aristoteles e della bizona.

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