Soffio di primavera

Le manifestazioni in piazza, la transizione e gli sbarchi su Lampedusa: a Torino, un convegno promosso dal Centro italiano per la pace in Medio Oriente.
primavera araba

Un vento caldo di libertà e democrazia è soffiato in questi mesi sui paesi del Nord Africa. Gli osservatori oggi la chiamano la “primavera araba”. Dall’Egitto alla Siria, le carte geopolitiche sembrano rimescolarsi. È un momento cruciale di cambiamento che sembra aprire novità, prospettive nuove. Ad oggi però la situazione rimane difficile da valutare. I movimenti di emancipazione sono appena iniziati, le forze in gioco sono diverse da Paese a Paese. La domanda è capire se la generazione nuova che è scesa in piazza sia in grado di giocare un ruolo effettivo anche sul piano politico della transizione. Un interrogativo che rimane aperto.

 

Se ne è parlato in questi giorni ad un convegno che si è svolto a Torino su iniziativa del Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo), e che sul tema delle “Minoranze etniche e religiose nel Mediterraneo” ha riunito imam, esponenti delle comunità ebraiche, rappresentanti delle comunità armene, copte, curde, Rom e berbere. Hanno preso la parola egiziani, algerini, membri delle comunità cristiane in Terra Santa. Inevitabile quindi che si sia parlato del Cairo e dell’effetto domino su tutta la Regione. Nella prestigiosa sala del Circolo dei Lettori sono state proiettate le foto di piazza Tahrir, dove cristiani e musulmani hanno manifestato mano nella mano, tra un Corano e una Croce, per riprendersi le sorti del Paese.

 

Tra i corridoi del convegno chiediamo a Mohamed Sabrin, vice capo redattore del quotidiano egiziano Al Ahram, di raccontarci le ultime novità sulla situazione del suo Paese. «Quello in cui tutti gli egiziani oggi sperano – dice – è uno Stato di diritto fondato sulla legge, su un sistema democratico in cui vengono riconosciuti a tutti i propri diritti e le modalità per accedervi». «Per trent’anni – racconta – il governo ha inventato il modo di congelare il tempo e la società egiziana è rimasta ferma, perché l’unica preoccupazione era quella di tenere in isolamento gli estremisti. Ma di fatto per trent’anni non ci sono stati sogni, progetti di lunga durata su cui lavorare, in un gioco delle parti in cui governo e opposizione si scaricavano colpe e responsabilità. E intanto il Paese cadeva in una situazione sempre più disperata di disoccupazione, povertà, tirannia». I copti sono stati forse la parte della popolazione egiziana che ha sofferto di più, vittime di una discriminazione vissuta a 360 gradi, anche per accedere ad impieghi pubblici. Ma la prospettiva di un Egitto nuovo e democratico è possibile? «Penso – risponde il giornalista – che sia assolutamente possibile, non solo perché la popolazione egiziana è in grado di farlo, ma anche perché con la caduta di Mubarak si sono aperte nuove speranze. Possiamo ora sviluppare ciò che veramente siamo».

 

La “primavera araba” ha spalancato le porte della speranza anche alla comunità cristiana che vive in Medio Oriente, in una non facile condizione di minoranza. Per i cristiani, le richieste di libertà e democrazia si traducono in una forte attesa di «piena e riconosciuta cittadinanza» nei paesi in cui non solo vivono, ma ai quali appartengono da sempre. Ne parla padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, di passaggio per Torino e in partenza per il Cairo. «I cristiani del Medio Oriente – spiega – sono arabi, pensano e parlano arabo, si nutrono della cultura araba». Una delle richieste più forti venuta dal Sinodo per il Medio Oriente lo scorso mese di ottobre è stata proprio quella di «una piena cittadinanza dei cristiani». I vescovi, rivolgendosi ai governi e ai responsabili politici dei loro Paesi, avevano sottolineato nel documento finale del Sinodo «l’importanza dell’uguaglianza tra i cittadini». «È questa – aggiunge padre Pizzaballa – la forte attesa che oggi le minoranze cristiane si attendono dopo la primavera araba».

 

«Le comunità cristiane che si trovano in paesi a maggioranza musulmana – ha spiegato Andrea Pacini, esperto di Islam della facoltà teologica di Torino – si confrontano con una situazione di cittadinanza imperfetta, e cioè formalmente riconosciuta in linea di principio ma di fatto direttamente o indirettamente contraddetta. E tutto ciò ricade su una popolazione che già vive di per sé una situazione di vulnerabilità». Qualche dato: «Se nel periodo ottomano, e cioè nel 1914, data dell’ultimo censimento, i cristiani nella regione del Medio Oriente e nell’attuale Turchia rappresentavano il 20 per cento della popolazione, arrivando a punte del 30 per cento nell’area siro-libanese, già nel 2000 rappresentavano appena il 6 per cento, e oggi la percentuale è ancora inferiore». Eppure, come in tanti hanno sottolineato, sulla presenza della minoranza cristiana in Medio Oriente si gioca un futuro di pace e convivenza pacifica e democratica in tutta la Regione.

 

Ma se sulla sponda sud del Mediterraneo soffia aria di primavera, le acque del Mare nostrum sono diventate ancora una volta teatro in cui si intrecciano le speranze di alcuni e le polemiche accese di altri: gli sbarchi su Lampedusa e la difficile gestione del problema a livello nazionale, ma anche i morti, i drammi consumati e le storie di vita affidate ai barconi. Un problema congenito all’area del Mediterraneo – ci dice con il suo arguto occhio da ricercatore storico, Franco Cardini – da gestire però «nell’interesse di tutti». Ed aggiunge: «Si possono anche affondare i barconi, come alcuni hanno dolorosamente auspicato in questi giorni, ma così si creano dei morti e i morti hanno dei parenti, e la maggior parte dei loro parenti non sarà sicuramente disposta a perdonare. Quindi facendo questi tipi di respingimenti semineremo solo morti e distruzione sui nostri figli. Magari non operiamo per generosità, né per spirito umanitario o per motivi religiosi, però agiamo per nostro interesse. Oggi è nel nostro interesse gestire il problema a costo di prenderci tutti e ciascuno la quota di sacrificio che la situazione ci richiede».

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