Società aperte, democrazia liberale e nuovo popolarismo

Contributo periodico sull'evolzione politico-culturale dell'Italia dopo le elezioni del 25 settembre. La complessa situazione italiana alla luce delle categorie del conservatorismo liberale e del riformismo progressista.
Foto:Cecilia Fabiano - LaPresse

Il liberalismo è egemonico nelle nostre società ma deve affrontare oggi due avversari aggressivi e gonfi di voti ma intellettualmente deboli, il conservatorismo ed il nazionalismo, afferma Andrea Capussela (Il Mulino 3/2022, p. 11). Il liberalismo ha protetto la democrazia tra la ricostruzione postbellica e gli anni Settanta, consentendo di realizzare il Welfare State. La disuguaglianza fu tenuta sotto controllo mentre oggi cresce il malessere delle società contemporanee.  In questo nuovo e difficile scenario, la libertà e la democrazia vanno salvaguardate con autentico spirito repubblicano, tra disagio e oligarchie. Il liberalismo non è naturalmente inclusivo. Occorrono imposte progressive per ridurre le disuguaglianze. Quale può essere allora la risposta repubblicana alla crisi della democrazia?  Ridurre il potere delle élite in nome della libertà di tutti. Questa visione consentirebbe all’ Italia di invertire il suo trentennale declino, fondato sulla debolezza della supremazia della legge e della responsabilità politica. È necessario riformare ciò che il liberalismo ha realizzato discutendo l’idea di libertà alla luce della Costituzione e dello spirito unitario repubblicano. Vantaggio: potenziale eliminazione della capacità di dominazione delle élite. Questo il pensiero di Andrea Capussela della London School of economics e autore di Declino Italia, Einaudi 2021.


Le elezioni del 25 settembre hanno rappresentato una svolta e forse l’inizio di un ciclo storico con il ritorno della politica dopo dieci anni di governi tecnici, di maggioranze improbabili e non scelte dagli elettori, di governi del Presidente o di unità nazionale forzata. Per Paolo Pombeni quello che è avvenuto è un fenomeno noto agli storici: “la reazione ad una fase di esasperazione del cambiamento nei momenti di transizione storica” (Mente Politica 28.09.2022). Enrico Letta con il suo scegliere tra noi e loro, tra i diritti e la loro negazione, ha avvantaggiato Giorgia Meloni che ha trovato maggiore sintonia con chi vuole frenare su innovazioni sempre più veloci sui diritti, in nome di un pensiero tradizionale di valori connettivi delle comunità. Lei si è imposta come leader anche frenando le esasperazioni del suo campo. La destra come coalizione è un amalgama che assembla un sentimento generale, nel quale non mancano elementi di revanchismo in fase di auspicabile dissolvimento. “Adesso il tema che si pone a tutte le componenti del sistema politico italiano è quello di ridefinirsi, di uscire dagli stereotipi delle vecchie contrapposizioni, di abbandonare culture che non sono in grado di confrontarsi con la transizione che viviamo, la quale ha cambiato buona parte dei quadri di riferimento. La destra deve decidere se il suo tradizionalismo diventerà una forma di conservatorismo che è capace di rivedere una serie di strumenti del governo delle tensioni sociali, senza pensare che sia possibile e che abbia senso ” tornare indietro”.  Per il campo progressista, dopo la grave sconfitta elettorale, dovuta anche alla incapacità di allearsi, vista la legge elettorale vigente, si impone una ridefinizione. Inseguire il massimalismo, le utopie, l’assistenzialismo o diventare una autentica forza riformatrice sulla scia delle socialdemocrazie del Nord Europa? Il riformismo, la lenta e graduale trasformazione della realtà sociale ed economica, implica il dialogo con forze liberaldemocratiche. Si tratta di governare fenomeni complessi conservando la solidarietà. Quindi, i due poli della conservazione e del progresso si devono ridefinire entro il 2027, fecondandosi a vicenda in modo fruttuoso per il Paese in un mondo in rapido cambiamento.  Altrimenti lo scontro ideologico si radicalizzerà con gravi conseguenze sull’equilibrio del sistema.


La tentazione attuale più grave ha un nome: la cosiddetta “democrazia illiberale” teorizzata da Orban in Ungheria con varianti in Polonia. Il tema è venuto alla ribalta con la condanna del sistema politico ungherese da parte del Parlamento e della Commissione europea. Orban è stato eletto in elezioni almeno formalmente democratiche ma ha teorizzato la ” democrazia illiberale”, che è un evidente ossimoro. I due termini sono in contrasto. “Il fatto è che non basta avere un simulacro di sistemi elettorali competitivi (con oppositori di comodo o comunque limitati nelle loro capacità di organizzazione) perché si possa parlare di democrazia e in ogni caso questo non è sufficiente per giustificare un sistema politico come appartenente alla sfera del costituzionalismo liberale  che è il modello accettato che poniamo alla base della nostra comunità politica (deriva da una lunga storia di cui l’ Occidente è o dovrebbe essere orgoglioso)” (Paolo Pombeni, Mente politica, 14 settembre 2022).

Qual è il discorso di Orban che la destra italiana non dovrebbe seguire per non entrare in rotta di collisione con Parlamento e Commissione europea?  È la teoria dello Stato illiberale: “…il nuovo Stato che stiamo costruendo è uno Stato illiberale, uno Stato non liberale. Non nega i valori fondamentali del liberalismo, come la libertà ecc. Ma non rende questa ideologia un valore centrale dell’organizzazione statale, ma al suo posto applica un discorso specifico, nazionale e particolare (Orban, 26 luglio 2014).  Per il premier ungherese “i valori conservatori della patria e dell’identità culturale prendono il sopravvento sull’identità della persona”.  Da qui nascono limitazioni alla libertà di espressione, di manifestazione nei pressi delle abitazioni dei politici, il controllo politico sulla magistratura, il divieto di emigrare per i laureati da meno di dieci anni, controllo dei media nazionali, limitazioni al potere della Corte Costituzionale nel controllo delle leggi e tanti altri esempi. L’Ocse ha definito inique le elezioni ungheresi per la sproporzione dei mezzi tra maggioranza e opposizione. Siamo, in conclusione, di fronte ad un abuso della maggioranza perché eletta dal popolo.

Papa Francesco ha affermato che non di populismo abbiamo bisogno ma di popolarismo. Per Bergoglio il popolo implica un destino comune. E molto più di un concetto. È emozione, senso, speranza, lotta. Possiamo parlare di neo popolarismo come risposta alla crisi della democrazia rappresentativa, senza entrare in forme illiberali?  Questo argomento merita però un prossimo approfondimento.

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