Single in coppia e solitudine

L’altra faccia della medaglia del rapporto tra due individui che coltivano una propria vita indipendente, senza considerarsi realmente fidanzati e senza vivere insieme. Il problema della solitudine affettiva e la vittoria del darsi all’altro

In questi ultimi tempi ho avuto modo di leggere diversi articoli che affrontano il tema delle coppie con la tendenza all’essere «single», che continuano cioè a mantenere un’attitudine da single anche durante una relazione duratura e stabile. Sono coppie nelle quali i due individui coltivano una propria vita indipendente, non si considerano realmente fidanzati e molto spesso scelgono di non vivere insieme.

Dicono serva a non far raffreddare il rapporto, a «scegliersi ogni giorno come fosse il primo»; io credo invece sia un modo per non scegliersi mai veramente. Uno dei due finirà per soffrire più dell’altro e si arriverà inevitabilmente ad una rottura della relazione stessa.

Non deve stupire affatto che alle varie e più note paure cliniche (paura delle piazze, delle altezze, del pubblico, etc.) possa aggiungersi anche quella del matrimonio. Essa è sì riconducibile alle responsabilità in senso lato, ma esistono varie spiegazioni al senso di angoscia come, ad esempio, il non poter tornare indietro, lasciare i genitori o un genitore, perdere la propria libertà e così via. La reazione più diffusa a questo tipo di paura è «ritirarsi nel guscio», favorendo così il «distacco».

Anziché risolvere attivamente i problemi il distaccato cerca di evitarli, si tiene a distanza dalle proprie difficoltà e costruisce delle barriere emozionali per difendersi. La paura del matrimonio, vissuta come privazione della libertà, è affine a questo profilo specifico e l’atteggiamento in questione viene clinicamente definito passività negativa.

Cosa significa esattamente? La passività negativa incarna un desiderio esasperato di evitare situazioni poiché si teme di incappare in qualcosa di spiacevole. Evitare questioni sgradevoli, tuttavia, non rappresenta un ostacolo finché proprio lo schivarle fa sì che il soggetto si ritrovi in circostanze sempre più sgradite e a questo punto si manifesta la patologia vera e propria: la paura della cosa spiacevole, cioè l’ansia di attesa, provoca addirittura sintomi patologici psicofisici.

Bisogna cambiare prospettiva e cercare di percepire il matrimonio come un’evoluzione del rapporto e non come la fine. Si dice spesso che gli innamorati siano ciechi da un occhio, fanno follie ma non si vergognano di essere pazzamente innamorati. Ebbene il mio augurio è che i fidanzati continuino così anche nel matrimonio, continuino a scambiarsi frasi di sostegno, di intesa come: «posso aiutarti?». «Mi spiace». «Scusami». etc.

Tutto questo può non essere sufficiente, dal momento che ogni cosa deve essere adeguata alle circostanze della vita e dell’età, ma è certamente un grosso aiuto, soprattutto se si evita di reclamare come un diritto ciò che si può chiedere come un favore. Inoltre, così come nel fidanzamento si programmano in anticipo le ore, i momenti per vedersi e guardarsi negli occhi reciprocamente, occorre trovare il tempo per stare insieme anche quando si è sposati. Bisogna continuare ad ascoltare e a saper tacere senza dimenticarsi della fondamentale funzione che svolge la comunicazione.

L’amore è dunque attenzione, comprensione, entrare cioè nel mondo dell’altro. L’amore è dare, è offrire senza riserva e senza negarsi, è un incontro non fusivo o confusivo, ma dialogico, è un’unione tra due esseri diversi che vivono in una incessante comunicazione emotiva e intellettuale. Si tratta di coesistere e non convivere, aderire e non accondiscendere, di essere uniti e non confusivi, congiunti e non separati e, soprattutto, aperti al dialogo.

Nella società odierna, da alcuni studiosi definita «liquida», è difficile ritrovare questa dedizione nel rapporto di coppia; il retaggio culturale di una società che ormai è «sola» e in continuo dinamismo frenetico porta a percepirlo come una prigione fine a sé stessa.

Ci si lamenta della presunzione umana e del conseguente aumento della solitudine. Enti sociali, associazioni, istituzioni organizzano gruppi per persone anziane allo scopo di liberarle, almeno temporaneamente, dalla loro solitudine. Si pensa, erroneamente, che solo gli anziani siano affetti da questo problema, ma la solitudine riguarda anche moltissime persone giovani le quali, soprattutto durante i fine settimana, si sentono abbandonate, non amate o respinte. Si sentono penalizzate, incapaci di cambiare attivamente la loro situazione e, di conseguenza, TV, alcol, pillole, droga etc. sono gli stimolanti contro il senso di abbandono.

Questo senso di solitudine viene percepito anche in molte coppie giovani che, vuoi per difesa da un eventuale sofferenza vuoi per una sorta di moda, vivono le relazioni in modo «liquido», spaventate da quello che un impegno relazionale serio e duraturo può comportare.

Il problema della solitudine affettiva è destinato ad aumentare nella nostra società post-industriale, dove sempre più difficili diventano i rapporti interpersonali e dove si insinua la prospettiva della disgregazione familiare.

Una possibile soluzione può consistere nel riscoprire il «senso di comunità» e accantonare qualsiasi ipotesi pessimistica sul futuro.

Cos’è il senso di comunità? È la facoltà psicologica, propria dell’uomo, di non essere soltanto «per se stesso», ma di poter uscire da sé per donarsi e questo è il meccanismo che dovrebbe scattare in quelle coppie «che vivono da sole in coppia». Bisognerebbe far comprendere che il darsi all’altro non è perdere ma vincere. Ricordiamoci che ogni gesto d’amore è la porta per uscire da se stessi e per entrare nel mondo dall’altro, la porta dell’«io» al «tu», e che noi viviamo più in quelli che amiamo che non in noi stessi. Senza l’altro nessuno è sé stesso.

Quello di cui abbiamo estremamente bisogno è sentire che qualcuno ha bisogno di noi, infatti la sofferenza della solitudine affettiva non consiste tanto nel fatto che non ci sia nessuno a dividere il proprio fardello, ma che si abbia a portare soltanto il proprio.

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