Sinfonia di bellezza

Di Betta

Quella mattina ero passato in chiesa quasi per caso. Vincenzo era lì a distribuire dei foglietti sulle panche. No, niente messa o funzioni liturgiche, si stava preparando un grande concerto che quella sera avrebbe visto la partecipazione di oltre 250 persone, un po’ da tutto il mondo. Una bella scommessa per una chiesa come Santa Maria in Campitelli, nel cuore del “ghetto” ebraico di Roma. La polo e i pantaloncini mi avevano ingannato bene: dietro a quel modo di fare semplice e alla mano, c’era il maestro Vincenzo Di Betta: cantante, organista e direttore d’orchestra, è uno dei principali protagonisti dell’attuale rivalutazione della musica rinascimentale e barocca in Italia.

Vincenzo si distingue per un’irresistibile simpatia e ironia, la stessa che quella mattina affrontò la mia faccia di bronzo che chiedeva informazioni: sarebbe potuto essere benissimo il sacrestano  della chiesa, e lui, di tutta risposta, mi offrì un caffè. Solo al banco del bar mi resi conto della terribile gaffe in cui ero incorso, per me un po’ tipica, che poi mi permise di diventare amico di questo siciliano di Porto Empedocle: quarant’anni portati con disinvoltura, ha compiuto gli studi musicali tra Zurigo e  Palermo, e fin da giovanissimo ha rivolto i propri interessi al repertorio della musica rinascimentale e barocca. Il Maestro Di Betta ha fatto parte di numerose formazioni tra le quali l’Ensemble Elyma, lo studio di musica antica Antonio Il Verso di Palermo, Ensemble Arte Musica. Tenore al Teatro dell’Opera di Roma, con un passato nel Coro della Cappella Musicale Pontificia  Sistina, dal 2011 dirige la Cappella Musicale di S. Maria in Campitelli, l’Ensemble La Cantoria Campitelli, e direttore artistico del Festival Rinascimentale – barocco La Cantoria .

«La mia è una famiglia normale, papà, mamma e due sorelle più piccole. Non è una famiglia di artisti, sono stati i due nonni, il nonno materno (che abitava sotto la cattedrale di Agrigento), e il nonno paterno, a farmi sentire l’amore per la musica». Aveva tra gli otto e i nove anni Vincenzo, quando, per caso, mise le mani sull’armonium della chiesa: nacque un amore che dura tutt’oggi. «Il parroco mi regalò l’armonium, tanto ero attratto dallo strumento. Poi, il canonico don Calogero Costanza mi diede le prime basi per iniziare e io nel tempo cercai di crescere, da autodidatta».

Un autodidatta che però è cresciuto in fretta.

«La coscienza musicale in effetti si è formata a ritmi serrati, ero abbastanza precoce, e dopo aver fatto il mio percorso di formazione, ho conosciuto prima la realtà musicale palermitana, dove ho fondato una corale nella città di Termini Imerese, e lì sono rimasto cinque anni come maestro e poi come cantore a Palermo. Quella è stata l’esperienza che mi ha fatto da “faro” nella musica antica, arrivando poi alla conoscenza del grande maestro argentino Gabriel Garrido che mi ha dato la capacità di orientarmi alla musica barocca».

Per te è iniziata un’avventura che ti ha poi portato ben presto oltre i confini della Sicilia…

«Dopo alcuni anni sono arrivato a Roma. Ricordo che lavoravo alla Simmenthal di Aprilia: finivo il lavoro in fabbrica e raggiungevo Roma per studiare canto. Mi dividevo tra lezioni, studio, concerti…E’ forse stato uno dei periodi formativi più importanti per me, non solo per la sussistenza, ma anche per mantenere un giusto contatto con la realtà, con la quotidianità di tutti. Trasferire in musica le emozioni, il vissuto, la ricerca del bello che ho sperimentato anche in quegli anni, è stato fondamentale».

I momenti duri non sono mancati. Come li hai superati?

«La forza interiore è dettata dalla voglia di vincere. So di aver ricevuto un dono da Dio e questo dono lo devo saper mettere a frutto per gli altri, e per me stesso. E così di fronte ai momenti più difficili decido spesso di fare un balzo in avanti, scegliendo ciò che magari è più incerto ma in cui credo, lottando con tutte le mie energie…la testardaggine a volte porta frutti e benefici».

Hai in mente un momento in cui hai detto “quasi quasi ce la faccio”?

«Una svolta l’ho avuta con il Maestro Roberto Gabbiani all’Accademia di Santa Cecilia a Roma: cercavano un tenore per sostituire un collega dell’Accademia e ho fatto l’audizione. Mi hanno preso, e in quell’anno, il 2004, ho lavorato lì per pochi mesi; contemporaneamente ho vinto l’audizione nel Coro del Teatro all’Opera, precario fino al 2013, quando ho vinto il Concorso Internazionale per Artista del Coro Lirico».

Prima di arrivare all’Opera sei stato cantore del Coro della Cappella Sistina. Che ricordo porti di quell’esperienza?

«Quella è stata un’esperienza straordinaria. Ho lavorato tre anni alla Sistina, a servizio di Benedetto XVI, un grandissimo papa e un grande uomo, per umiltà e saggezza. Il Coro della Cappella Sistina, ufficialmente Cappella Musicale Pontificia Sistina, è un’istituzione Pontificia che regola le celebrazioni del pontefice: cantare lì quelli che sono anche i valori della tua fede ha un sapore totalmente diverso che farlo da qualsiasi altra parte. Ti senti imperniato di una responsabilità incredibile. Si vive e si canta nei luoghi dove la storia ha segnato una grande appartenenza di sentimenti, nei luoghi dove Michelangelo, Bernini hanno messo le mani. Cantare sotto la volta del Giudizio Universale è sconvolgente, incredibile, ti senti immerso in quella musica nello stesso contesto dove è stata creata».

Quanto conta l’esperienza del bello nella formazione di una persona?

«Moltissimo. Circondando il tuo occhio di bellezza alla fine devi essere una persona bella. Le persone che vivono nel bello e sono cattive, in realtà non amano il bello. Il bello è una sorta di canale per fare un passo in avanti… ancora più avanti!».

Quel famoso concorso internazionale per il coro del Teatro dell’Opera l’hai nel frattempo vinto, iniziando una brillante carriera in una compagine Corale di 90 elementi, diretti da Riccardo Muti..

«Sono iniziati anni di duro lavoro ma anche di grandi soddisfazioni. Siamo riusciti a portare in alto il nome dell’Italia nel mondo, lavorando sodo, creando una squadra affiatata, affrontando sacrifici e soprattutto sfruttando al meglio i propri talenti per metterli a servizio dei fruitori dell’Opera». Scampati di recente dalla possibilità di un licenziamento collettivo, è nata ancora di più, in tutti noi artisti, la voglia di fare e di fare bene. Il teatro e l’Opera Italiana sono la forza culturale del nostro Paese, mi auguro in un ritorno del Maestro Muti, vero timoniere della musica in Italia nel Mondo».

E piano piano arriviamo al tuo cuore, che è racchiuso nella Cappella Musicale di Santa Maria in Campitelli.

«Un sacerdote mi ha chiesto se ero disponibile come organista per una chiesa del centro di Roma. La conoscevo di riflesso perché ero venuto a fare delle cerimonie. Mai avrei pensato che un giorno sarei diventato qualcuno di utile per questa comunità. Ho così conosciuto il Parroco p. Davide Carbonaro, la comunità OMD e il suo Padre Generale Padre Petrillo, al quale ho presentato un progetto per la ricostituzione dell’antica cappella musicale che oggi dirigo, ed è conosciuta ed apprezzata per le sue liturgie e i suoi concerti, per le attività culturali, con anche la collaborazione dell’Associazione La Cantoria ».

Ti brillano gli occhi quando ne parli…

«Quando lavoro qui, ho una percezione di linearità di vita, di amore per la bellezza, per le persone con cui collaboro, che non ho da altre parti. Forse perché sento che quello che faccio qui ha davvero un significato per la comunità: qui ci sono cattolici, ebrei, c’è un musulmano, ci sono atei, è un’esperienza non solo artistica, ma anche di dialogo ecumenico, è un “fare” ecumenico che ci coinvolge e ci cambia. E’un contesto incredibile quello della Cantoria, perché mette insieme persone che vivono nel loro piccolo le situazioni più diverse che mi fanno capire quanto è importante vivere con gli altri».

I più letti della settimana

Osare di essere uno

Chiara D’Urbano nella APP di CN

Focolari: resoconto abusi 2023

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons