Siamo rimasti perplessi, caro Scalfari

Il fondatore di “la Repubblica” s’incontra di nuovo col papa e pubblica la sua ricostruzione del colloquio come fosse un’intervista per il quotidiano romano. Operazione lecita?
Eugenio Scalfari

Caro Scalfari, assieme ai colleghi abbiamo letto con grande interesse quella che credevamo essere un’intervista a papa Bergoglio, pubblicata sulla “sua” Repubblica domenica scorsa. Ci siamo compiaciuti per certe affermazioni di Francesco, in particolare su pedofilia e mafia. Crediamo infatti che serva un’indubbia “violenza evangelica” per estirpare certe malepiante nella Chiesa. Qua e là, lo confessiamo, avevamo tuttavia la vaga impressione di trovarci di fronte a una prosa non totalmente bergogliana e talvolta con accenti chiaramente scalfariani. Ormai la leggiamo da troppi decenni per non conoscerla almeno un po’. Purtroppo le precisazioni rattristate di padre Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana, hanno confermato la nostra prima impressione. La sua con papa Bergoglio risulta in effetti essere una conversazione non registrata e da lei ricostruita. Ed è qui che, da giornalisti, ci piacerebbe avere una sua risposta.

Dai manuali di giornalismo e dai tanti codici deontologici (oltre che dal diritto civile) risulta doveroso e inderogabile riportare il pensiero dell’intervistato così come è stato pronunciato. Ci sono dei casi in cui, per l’importanza dell’interlocutore o la delicatezza del caso, è doveroso registrare l’intervista per poter riportare fedelmente la conversazione. Certo, noi giornalisti abbiamo comunque il coltello dalla parte del manico perché possiamo in ogni caso decidere cosa pubblicare e cosa omettere. Possiamo altresì lavorare con le armi della descrizione del colloquio, dei luoghi, delle espressioni facciali, delle pause… Ma le parole pronunciate debbono essere quelle.

Altro elemento che fa riflettere: immaginiamo che, comunque, lei fosse d’accordo con papa Francesco sull’opportunità di pubblicare il resoconto del colloquio. Non diciamo che sarebbe stato deontologicamente obbligatorio da parte sua far rileggere all’intervistato quanto da lui detto per avere una sua approvazione, o quantomeno una sua conferma del “virgolettato”. È una pratica, questa, non prevista dall’etica professionale, ma che non sarebbe male applicare se ce ne fossero le condizioni: nel nostro piccolo a Città Nuova cerchiamo di farla. Crediamo comunque che sarebbe stato per lo meno elegante sottoporre a Francesco il resoconto del colloquio prima della pubblicazione.

Ci sembra che proprio il virgolettato avesse ed abbia ancora una sua sacralità: se io metto sulla bocca di un mio interlocutore parole che egli non ha mai pronunciato ecco che si apre la strada, anzi direi un’autostrada, al relativismo giornalistico più assoluto, oltre che alla violazione della legge.

Ci dirà: ma l’importante non è la singola parola, quanto il senso globale di quel che l’interlocutore vuol dire, e potrebbe citarci maestri quali Kapuściński e Terzani che hanno agito della sorta. Concordiamo, a volte una parola può essere una cattiva espressione di un pensiero che, formulato con una perifrasi o con altri vocaboli, può essere meglio spiegato dal giornalista stesso. Ma far dire a un pontefice parole durissime, ad esempio sui cardinali che sarebbero pedofili, ci sembra superare anche questo paletto.

Caro Scalfari, lei è stato ed è un modello per tanti giovani che vedono nella nostra professione un modo di servire la verità e di permettere alla società di avere delle buone sentinelle per la legalità, per l’onestà, per il bene comune. I giornalisti, giovani e meno giovani, hanno più che mai bisogno di esempi, di professionisti che rispettino le regole, che siano eticamente ineccepibili. Vorremmo ancora annoverarla tra i nostri modelli.

Con la nostra massima considerazione,

Michele Zanzucchi e i giornalisti di Città Nuova

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