Serve un giornalismo dialogico

Quali sono le maggiori difficoltà per i giornalisti di oggi che affrontano quotidianamente il fenomeno dell’immigrazione? Che ruolo ha la criminalità? Perché l’Islam fa paura? A LoppianoLab un laboratorio riflette sul rapporto "Giornalismo e Migrazione"
Loppianolab 2016 regia

Durante la prima giornata di LoppianoLab si è tenuto un laboratorio per approfondire il tema "Giornalismo e Migrazione". L’argomento è tra i più sentiti del momento, non solo per il fenomeno migratorio che ormai da anni ci tocca da vicino ma anche per il ruolo dei mass media che hanno il dovere di veicolare un messaggio vero e non propagandistico. Perché l’Islam fa così tanta paura e quali possono essere le soluzioni? In questo contesto, quale è il ruolo della criminalità organizzata? Come cercano di difendersi i Paesi della rotta balcanica? E quale è il ruolo del giornalista?

 

A queste domande hanno cercato di rispondere Michele Zanzucchi, direttore di Città Nuova, Stefania Tanesini, membro della Commissione internazionale NetOne, Pàl Toth, docente di Scienze della Comunicazione all’Istituto Universitario Sophia, Riccardo Barlaam de Il Sole 24 ore e Gianni Bianco, capo servizio del TG3 Rai.

 

Attualmente, in Italia, vive una comunità di più o meno 1 milione e mezzo di musulmani; di loro, un terzo ha la nazionalità italiana. Di quelli che sbarcano sulle nostre coste almeno la metà sono cristiani. E allora da dove viene la paura del diverso e in questo caso dell’Islam? La responsabilità è di quei politici che sfruttano il problema per farne propaganda personale, di chi parla senza conoscere, ma anche e soprattutto dei giornalisti il cui compito è, o almeno dovrebbe essere, informarsi prima di informare. E’ vero che la velocità di internet e dei nuovi social network da la possibilità a chiunque di mettere in giro informazioni, è vero che in questo modo viene meno la mediazione dei professionisti e che a causa della velocità degli eventi e dei mezzi per trasmetterli molto spesso i giornalisti si ritrovano ad essere tuttologi che in poco tempo devono buttare giù un pezzo, ma è vero anche che se il giornalista vuole sopravvivere a questa nuova era deve puntare sulla professionalità. E i professionisti della comunicazione sanno che il taglio che daranno al loro pezzo, il tono utilizzato, le fonti citate, tutto servirà ad influenzare o quanto meno indirizzare l’opinione del pubblico, da qui allora la scelta: creare allarmismo, paura, odio o apertura e accoglienza? Per non avere più paura del diverso c’è un solo modo: imparare a conoscerlo ed aiutarlo ad integrarsi, da qui un’idea che viene dal direttore Zanzucchi: “Per combattere il terrorismo bisogna costruire moschee”.

 

Al problema del buon giornalismo si somma poi quello della notiziabilità. Parlare di immigrazione fa notizia fino a quando l’arrivo dei barconi non diventa quotidianità, a quel punto i giornalisti sono obbligati a cambiare pagina o ad attaccarsi a quei particolari come una donna incinta che partorisce durante la traversata o un bambino trovato morto su una spiaggia. In questo caso, come sottolinea Gianni Bianco, bisogna però ricordare le parole di Papa Francesco durante l’ultimo incontro con i giornalisti: “Non siate commessi della paura”.

A tutto ciò si aggiunge la storia politica e culturale di ogni Paese. Pal Toth, ungherese, ha affrontato il tema immigrazione dal punto di vista di uno dei Paesi della rotta balcanica: l’Ungheria. Proprio in Ungheria, dove tra pochi giorni i cittadini saranno chiamati a votare al referendum “Volete che l’Unione europea imponga l’insediamento forzato di cittadini non ungheresi sul territorio nazionale senza il consenso del parlamento?”, la politica sta giocando sulla paura e l’orgoglio nazionale. Il Paese, nel passato, ha avuto un ruolo fondamentale contro l’espansione dell’Impero ottomano ed ancora oggi immagina di dover difendere il cristianesimo.

Il giornalismo del futuro potrebbe essere allora il “Giornalismo dialogico”, come quello di cui si fa portatrice Stefania Tanesini, dove i fatti si guardano con l’ottica della fraternità e si tocca con mano quello di cui si parla.

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