Se la lotta alla povertà è inefficace

Pubblicato il Rapporto 2012 del Centro studi e ricerche “E. Zancan” di Padova: sono allarmanti i dati sulla povertà, mentre appaiono spesso improduttive le misure per contrastarla
barboni a milano

In un periodo ricco di dossier e ricerche sul sociale, non poteva mancare l’autorevole  voce del Centro studi e ricerche della fondazione E. Zancan di Padova che ha presentato il Rapporto 2012 dal titolo "Vincere la povertà con un welfare generativo. La lotta alla povertà".

Il volume analizza gli interventi e le politiche di contrasto alla povertà, per definire meglio effetti, costi, benefici e sprechi. La crisi, con le sue pesanti ricadute sociali, obbliga a un ripensamento e a un salto di qualità della lotta alla povertà, in un sistema di welfare che deve diventare capace di rigenerare le proprie risorse, non soltanto economiche ma anche e soprattutto umane.

Risalta l’aggettivo dato alla parola welfare: generativo. Perché è stato scelto? «Perché è capace di responsabilizzare e responsabilizzarsi, sulla base di un diverso incontro tra diritti e doveri, passando dalla logica del costo a quella dell’investimento e privilegiando l’efficacia e non la semplice assistenza. È la via per una nuova cittadinanza che fa del governo dei diritti e dei doveri un’opzione strategica e generativa che restituisce ai diritti sociali il loro ruolo di motore moltiplicativo delle capacità», ci dice Tiziano Vecchiato, direttore scientifico della fondazione Zancan e curatore, insieme ad altri ricercatori, del rapporto.

Un testo che evidenzia come le difficoltà attuali e la speranza di superarle si avvicinano tra loro, fino a concentrarsi su un tema di fondo: rigenerare un sistema di solidarietà in profonda crisi di fiducia. La lotta alla povertà può aiutarci a meglio affrontare questa sfida che non riguarda solo l’attuale recessione di welfare ma il suo futuro.

«Tra il 2008 e il 2009 la spesa assistenziale dei comuni – precisa Vecchiato – è aumentata del 4,7 per cento. La spesa per la povertà è aumentata del 7,4 per cento e quella per il disagio economico del 13,3. Nel quinquennio 2005-2009 la spesa sociale, in termini nominali, ha registrato un trend in costante aumento, passando da 5.741 milioni di euro a 6.979 milioni di euro, con un aumento del 22 per centol. Contemporaneamente, la spesa a sostegno delle persone con disagio economico è aumentata del 42 per cento (da 1.164 a 1.656 milioni di euro) e quella destinata alla povertà del 37 per cento (da 423 a 579 milioni di euro)».

Ma quello che più preoccupa è un altro sostanziale e preoccupante aspetto. «Gli oltre ottomila Comuni italiani sono come barche in balia della crisi e dell’impoverimento della popolazione –  incalza Vecchiato -, senza riferimenti condivisi, senza una bussola, senza una mappa da seguire. Potranno in queste condizioni affrontare la tempesta della crescente domanda sociale? Potranno reggere il difficile rapporto tra erogazioni insufficienti e il consenso che anche oggi è la merce di scambio? È questo il punto di maggiore criticità».

La situazione ci descrive un sistema dove ogni Comune fa quello che può e ritiene giusto. Dove troppo spesso chi viene dopo agisce diversamente da chi governava prima. Dove chi chiede aiuto può vedersi negato quello che prima gli era dato. Dove quello che un comune non offre viene invece dato, in altri luoghi, senza troppe difficoltà.

Nei casi in cui si investe molto senza ridurre i problemi, l’aiuto è semplice assistenzialismo e non ci si pone il problema di capire che qualcosa non funziona: sembra lontano anni luce l’art. 3 della costituzione che recita: "(…) È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”.

Al contrario, quando le risorse sono poche, si abbandonano al loro destino, spesso irreversibile, persone e famiglie.

«Sono questioni di natura strategica e politica che da troppi anni – aggiunge il direttore della Zancan – non vengono considerate e affrontate. Mantengono l’assistenza sociale in deficit di governo. La crisi in cui ci troviamo chiede di mettere in discussione la struttura della spesa sociale e riqualificarla. L’incremento di interessi sul debito pubblico da 71 miliardi del 2010 a 105 miliardi nel 2015 è pronto a bruciare altre risorse, senza generare nessuna utilità sociale».

La Zancan sottolinea che alcune strategie rigenerative sono già presenti nel lavoro delle professioni sanitarie, sociali, educative quando sono consapevoli che l’efficacia della propria azione dipende da una premessa necessaria: «non posso aiutarti senza di te».

È una consapevolezza etica e strategica ancora debole che va però rafforzata per potenziare il rendimento del capitale a disposizione dell’assistenza sociale: quasi 51 miliardi di euro.

«Il rapporto si chiede cosa succederebbe se una parte dei trasferimenti economici – osserva Vecchiato – fossero gestiti in modo generativo, responsabilizzando, rigenerando le risorse,  facendole rendere senza consumarle. Cosa succederebbe, ad esempio, se la «cassa integrazione» alimentasse lavoro gestito a fini sociali da soggetti capaci di moltiplicare il suo valore, senza mantenere le persone in condizione passiva, a casa e senza lavorare, pur ricevendo reddito? Un lavoro temporaneo gestito e remunerato garantirebbe socialità, uscita dalla solitudine, dignità, apprendimento e sviluppo di nuove capacità, rendimento economico, utilizzo dei proventi di questo lavoro per fini di solidarietà, incremento del capitale sociale di tutti. Le norme non lo prevedono e non lo negano. L’ostacolo principale è l’idea di un “diritto a fruizione individuale”, privo di responsabilizzazione sociale».

Il problema, forse, è passare da costo a investimento, da spesa a capacità rigenerativa delle risorse, da welfare redistributivo a welfare moltiplicativo, con nuove strategie che non riguardano soltanto la perdita del lavoro ma anche altre «perdite»: di salute, istruzione, reddito.

Molti enti no-profit potrebbero essere interessati a gestire lavoro già temporaneamente remunerato, destinando il rendimento a investimenti di welfare. È una sfida interessante se si pensa che questo lavoro, a rendimento pubblico, comporta la necessità di sviluppare una logistica della solidarietà e del lavoro in modi nuovi. Non sarebbe la prima volta che questo avviene; è già successo ad esempio nel caso del servizio civile volontario.

Il criterio generativo si può applicare alle risposte per contrastare più efficacemente la povertà. Se il principio attivatore è «non posso aiutarti senza di te» la conseguenza è «cosa puoi fare con l’aiuto messo a tua disposizione?» «Come rigenerare le risorse, mettendole a disposizione di altri che ne avranno bisogno dopo di te?». I valori economici in gioco potrebbero essere considerevoli e tali da chiedersi non soltanto «quanto ci costano i diritti?» Ma «quanto ci possono rendere? A vantaggio di quante persone? Con quanta migliore coesione sociale?».

Allora andiamo al punto: investire in un welfare generativo. Conclude Vecchiato: «Esso richiede un passaggio strategico: da welfare che raccoglie e ridistribuisce le risorse in modo solidaristico (sistema attuale) a welfare che diventa capace di fare di più, investendo molto di più nelle persone. La sequenza “raccogliere e ridistribuire” deve estendersi all’impegno di “rigenerare, rendere e responsabilizzare”. In un’ottica che consideri anche un'altra, indispensabile variabile: l’eccedenza che opera quando viene rimesso a disposizione quello che si riceve.

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