Ruiz Garcia, vescovo e “padre”

Un profilo del  vescovo di San Cristobal de las Casas, nello Stato di Chiapas, scomparso a fine gennaio e chiamato Tatic, "padre", dagli indigeni
garcia ruiz e il sub comandante marcos

Il 24 gennaio  si è spento in un ospedale di Cittá del Messico, a 86 anni, monsignor Samuel Ruiz Garcia (a sinistra nella foto col subcomandante Marcos), primo vescovo di San Cristobal de las Casas, nello Stato di Chiapas, in Messico.

 

«Ringrazio in modo speciale per il privilegio di aver potuto scoprire negli umili e nei semplici: i poveri e gli indigeni, la grandezza dei Suoi disegni manifestati in coloro a cui appartiene il Regno dei Cieli». É ciò che si legge nel testamento del vescovo e che lascia intravedere la centralità della questione indigena nella sua opera di pastore della chiesa locale di Chiapas.

 

Da questa poi fu creata la Diocesi di San Cristobal de las Casas, nome preso dal domenicano frate Cristobal, primo vescovo di Chiapas nel sedicesimo secolo, combattuto dai potenti dell’epoca, che si dedicavano allo sfruttamento della popolazione indigena. A questo frate somigliava proprio don Samuel per il suo lavoro costante nella decisa difesa della dignità degli indigeni, ora come allora sommersi da povertà ed emarginazione.

 

A questo popolo, composto per il 58 per cento da indigeni, divisi in undici gruppi etnolinguistici, si donò con tutte le sue forze il giovane vescovo di 35 anni, don Samuel, nel lontano 1960. Veniva da una regione del Messico, El Bajio, di profonde tradizioni cattoliche e diocesi fiorenti. Dotato di una solida formazione teologica, ortodossa e tradizionale, che suggeriva un futuro accademico piú che pastorale, don Samuel seppe capire i segni dei tempi nelle vicende del popolo che lo accoglieva, povero ed indigeno, e nei venti del Concilio Vaticano II a cui partecipò.

 

Percorse tutta la geografia della diocesi, tanto che alcuni lo chiamavano il camminante, ma alla fine fu per tutti Tatic, padre, guida in lingua tzeltal. Presto definì una pastorale partecipativa, attenta ai valori ancestrali degli indigeni, che dava loro protagonismo, da fedeli laici o come catechisti, per poi dare impulso all’ordinazione di diaconi permanenti sposati, che supplirono alla carenza di sacerdoti.

 

Il tutto fu articolato in dinamiche pastorali incentrate nel riscatto della dignità della persona e nel rispetto dei diritti umani. Era una forte scommessa, la sua, per quei tempi, che faceva a pugni con l’inconfessato disprezzo dell’indigeno, con una élite politica dominante, clientelare, corrotta, demagogica e con latifondisti che sfruttavano il lavoro manuale dei poveri. Una scommessa che all’interno della chiesa non fu del tutto capita e gli provocò la disapprovazione di parte dell’Episcopato e di alcuni esponenti vaticani per le audaci scelte pastorali, ma allo stesso tempo fece emergere la sua figura come una fra le piú credibili della Chiesa agli occhi dell’opinione pubblica e degli anticlericali che abbondano in Messico.

 

Nei 40 anni a capo di quella diocesi, Samuel Ruiz diede impulso e promosse numerose ed importanti iniziative umanitarie, come l’assistenza ai rifugiati del Guatemala scampati all’orrore della guerra civile (1960 – 1996) con i militari al potere nel loro paese. La diocesi di Chiapas predispose delle case di accoglienza attraverso un Comitato di assistenza per i rifugiati, che a migliaia varcavano il confine, assistendoli con progetti di cura e sostegno fino al loro ritorno in patria, molti anni dopo.

 

Il nome di questo vescovo è da tanti associato al processo di pacificazione dopo la rivolta zapatista. Il 1 gennaio 1994 un gruppo armato assaltò i commissariati di polizia di diversi municipi di Chiapas, prendendone il controllo. Era l’insurrezione zapatista, con il comandante Marcos a capo di un autodenominato Esercito zapatista di liberazione nazionale. Dopo una decina di giorni di scontri a fuoco con l’esercito si giunge a una tregua e immediatamente mons. Samuel offrì la sua mediazione per arrivare ad un accordo. Fu, quello, uno degli atti del vescovo di San Cristobal de las Casa che ebbero maggiore risonanza. La stessa cattedrale fu utilizzata come sede delle riunioni fra lo Stato e gli insorti, che culminarono negli Accordi di San Andrés, non ancora del tutto attuati.

 

Mentre continuava il suo impegno a favore della pace, cresceva anche l’impegno per la giustizia che lo vedeva sempre in prima fila, accanto agli oppressi, indigeni quasi sempre, nelle loro rivendicazioni per la terra, per i boschi, per le risorse naturali, per l’inclusione sociale.

 

Monsignor Ruiz Garcia diffuse la dottrina sociale della Chiesa attraverso un’altra delle sue inziative, la creazione del centro per i Diritti umani San Bartolomé de las Casas, divenuto negli anni un ente prestigioso, particolarmente impegnato nella denuncia e nella salvaguardia dei diritti umani, sociali e civili, spesso calpestati da governanti e latifondisti, come in occasione del massacro di Acteal, del 22 dicembre del 1997, perpetrato da gruppi paramilitari, sul quale non sono mai state effettuate indagini accurate. In quell’occasione 45 indigeni, riuniti in una cappella cattolica, furono accerchiati ed uccisi, fra loro molti bambini e donne.

 

Questo incessante contributo alla promozione umana gli ha meritato nel 2002 il Premio internazionale per i diritti umani dell’Unesco. Il vescovo è stato inoltre candidato, nel 1994, al Nobel per la Pace per gli sforzi di mediazione compiuti fra il governo messicano e l’esercito zapatista.

 

Il 26 gennaio, in occasione dei funerali, sono accorsi in migliaia dalle montagne e dai villaggi vicini, per gremire la cattedrale della Pace, quella di San Cristobal, e rendere l’ultimo saluto commosso, riconoscente, al Vescovo dei poveri. Erano soprattutto indigeni: cakchiquel, chol, jacalteco, kanjobal, lacandón, mame, mochó, tojolabal, tzeltal , tzotzil e zoque. «Se non fossi venuto, Tatic, saremmo ancora schiavi sfruttati e maltrattati», così ha affermato uno dei rappresentanti della popolazione indigena, mentre riecheggiavano le parole con cui un anno fa , esattamente il 25 di gennaio del 2010, durante la celebrazione del suo 50° anniversario di consacrazione episcopale, monsignor Samuel concludeva la sua omelia in quella stessa cattedrale invitando ad «Edificare e seminare perché venga il regno di Dio», un regno «di giustizia, di amore, di pace». 

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