Roma. Tanta voglia di cinema

Ecosì Walter Veltroni, sindaco, e Goffredo Bettini, presidente della Festa, ce l’hanno fatta. Sono visibilmente soddisfatti. Oltre 150 mila spettatori, di ogni età e simpatia, settemila accreditati, mezzo milione di persone che hanno affollato – letteralmente (code di scolari, gruppi di studenti, famigliole, appassionati di ogni tinta) – il Parco della Musica e gli altri luoghi della festa: i cinema, i teatri, la Casa del Cinema… Insomma, mamma Roma, accogliente e universale come sempre, ha voluto tutti. Dalla specchiatissima Via Veneto, che si desiderava far luccicare come negli anni Sessanta (ma non è andata), alla scalinata di Trinità de’ Monti, ai palazzi, ai quartieri popolari e periferici, la kermesse cinematografica dal 13 al 21 ottobre ha manifestato la sua anima popolare, calorosa e, a dir il vero, anche caotica. Gente, tanta, giovani, moltissimi. Organizzazione, con i sospiri della stampa per i disagi e i trasporti, inevitabili in una prima volta. In più, lo choc della metro A incidentata, la povera ragazza ciociara di 30 anni vittima che ha ridimensionato di colpo l’apertura hollywoodiana con i soliti divi (Sean Connery, premiato e omaggiato con una rassegna di suoi film, Scorsese, Nicole Kidman, Di Caprio… fino alla chiusura con Harrison Ford e Robert De Niro: gioia della cronache mondane), così che la Festa ha svoltato verso uno stile più sobrio: che le ha giovato, togliendo una certa aria strapaesana iniziale. Ma il successo resta, tra la felicità degli sponsor, che hanno sostenuto il 70 per cento delle spese, dei ristoratori, e dei fans agguerriti dietro le passerelle rosse ( il colore della Festa) delle star, o pressati nelle conferenze – bellissime – di personaggi come Martin Scorsese, o il duo nostrano Bellocchio- Bertolucci a parlare di vita e di cinema. Il quale da sempre si fa a Roma: giusto quindi che la Capitale ne abbia una sua festa, che è anche, di fatto, un Festival. I film della festa 169 film in nove giorni sono veramente tanti, pur divisi in cinque sezioni fra cui quella, assai interessante Alice in città, per ragazzi e adolescenti (che ha coinvolto 78 scuole). 52 dagli Usa, 48 dall’Italia, 28 dalla Francia, 17 dall’Inghilterra, 10 dalla Germania, 7 dalla Spagna: 32 Paesi rappresentati. Fra tanta abbondanza, si sono potute individuare alcune tematiche ricorrenti, dai risultati più o meno soddisfacenti. In primo luogo, il tema della morte e della violenza. Scorsese ne The Departed ne ha parlato, in modo formalmente perfetto, come in un cupo dramma scespiriano di gangster dove morte chiama morte, con una violenza parossitica senza luce (ma era necessario ritornare su un tema consueto, con il rischio del manierismo?). Tornatore, premiato dai blockbuster, nel suo ambizioso La sconosciuta, sceglie una città-simbolo, Trieste, per una storia di maternità brutalizzata e conquistata in modo durissimo, insistendo sulla violenza infantile; Francesca Comencini disegna in A casa nostra una Milano assetata di denaro, paradigma, secondo lei, dell’Italia attuale: forse troppo crudele e particolare. Il tema della paternità ritrovata o cercata non è nuovo, ma affascina. N, io e Napoleone di Virzì sceglie una versione molto toscana del soggiorno di Napoleone all’Elba tratteggiando potere e idealità giovanile (bravissimi Daniel Auteil ed Elio Germano), mentre Viaggio segreto di Andò e L’aria salata di Angelini rivedono con due storie diverse il rapporto irrisolto col padre. Se il primo fatica a liberarsi della cornice letteraria di una Sicilia forse stereotipata, il secondo affronta la storia di un giovane educatore carcerario a contatto col padre detenuto – un ottimo Giorgio Colangeli – col rigore commovente e imperfetto di un’opera prima. Certo, un’aura di pessimismo, a volte autocompiaciuto, si diffonde in parecchi lavori, tanto da domandarsi se non sia il caso di respirare un poco poco più in alto per ritrovare la propria umanità. Grazie ad una malattia o a un viaggio. In Uno su due Eugenio Cappuccio tratteggia la svolta di un avvocato cinico che, in ospedale per un possibile tumore, a contatto con un altro malato (Ninetto Davoli) riscopre la sua vera umanità. O in Voyage en Arménie una dottoressa ritrovando il padre malato, ritrova infine sé stessa. Come si vede, si spera. O si sorride e ride, come nello scanzonatissimo Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, una follia cinematografica che però fa pensare. I premi Creare una giuria popolare anziché di addetti ai lavori o star è stata una bella idea, in linea con la motivazione della Festa: far rinnamorare la gente del cinema. Così i 50, diversi per età e professione, guidati da Ettore Scola, hanno discusso, litigato, come si usa spesso fare, e infine decretato i premi, consegnati in modo semplice e caloroso nella sala Santa Cecilia: miglior film, il russo Playing the Victim di Kirill Serebrennikov (visto da ben pochi giornalisti, speriamo abbia vita in sala). Miglior attore, Giorgio Colangeli, a 57 anni finalmente premiato per L’aria salata, miglior attrice Ariane Ascaride nel malinconico Voyage en Arménie di Robert Guèdiguian; premio speciale della giuria a This is England, storia di un ragazzino inglese skinhead; e il premio Lara (Libera associazione rappresentanti artisti) al rinnovato Ninetto Davoli di Uno su due di Cappuccio. Alcune conclusioni D’accordo, la festa è andata bene, l’incasso economico raddoppiato, la città soddisfatta. Roma e il nostro cinema sono vivi. Esistono giovani registi che hanno parecchio da dire. Bastava uno sguardo alle sezioni collaterali, documentari e corti compresi, per rendersene conto. Chi continua a fare il profeta di sventura sul nostro cinema forse dovrebbe rimeditare. Restano alcune domande. La festa è an- che un festival, di fatto, in gara – più o meno evidente – con Torino e soprattutto Venezia, a cui appare cronologicamente molto vicina. Pur nella doverosa libertà delle manifestazioni cinematografiche, è evidente che la questione rimane aperta e da risolvere. Senza arroccamenti campanilistici o stoccate populiste, ma per il bene del nostro cinema, cioè di un aspetto forte della nostra cultura. Viene da chiedersi se non sia il caso, nel futuro, di sfoltire il programma della festa, con una scelta che non pensi soltanto al blockbuster americaneggiante, ma a dare spazio sempre maggiore ad autori, italiani e no, che abbiano qualcosa di nuovo da dire. Ciò vuol dire puntare più alla qualità che alla quantità. Le premesse, in questa prima riuscita edizione, ci sono tutte. La voglia di buon cinema c’è, e tanta. Basta accontentarla. Con misura.

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