I rohingya e la “rabbia” del papa

Secondo Medici senza frontiere sarebbero almeno 6.700 le persone uccise in Myanmar tra agosto e settembre. Tra queste, 730 erano bambini sotto i 5 anni. Il bilancio ufficiale delle autorità birmane nello stesso periodo parla, invece, di 400 vittime, per la maggior parte indicate come “terroristi islamici”. Un commento alla visita del papa in Asia

Poche settimane dopo la partenza di papa Francesco dal Bangladesh, emergono i nuovi numeri delle violenze che sarebbero state subite dai Rohingya. Secondo Medici senza frontiere (Msf), infatti, sarebbero almeno 6.700 le persone uccise in Myanmar tra agosto e settembre. Tra queste, 730 erano bambini sotto i 5 anni. Il bilancio ufficiale delle autorità birmane nello stesso periodo parla, invece, di 400 vittime, per la maggior parte indicate come “terroristi islamici”. Un divario abnorme, tra i diversi dati, che potrebbe ulteriormente aumentare. Infatti, spiegano i rappresentanti di Msf, i dati sarebbero sottostimati. Complessivamente, infatti, si stimano 13 mila vittime. Non solo. Secondo un’indagine dell’Associated Press, le donne Rohingya sarebbero state sottoposte a violenze e stupri. A subirle, donne di età compresa tra i 13 e i 35 anni.

Il dolore dei Rohingya era stato condiviso da papa Francesco, che aveva posto a condizione del suo viaggio proprio l’incontro con una loro rappresentanza. Al termine del viaggio in Myanmar e in Bangladesh, mentre era in volo, sull’aereo il pontefice ha fatto una conferenza stampa di straordinario rilievo, in cui ha narrato il Vangelo del perdono e della misericordia nel suo incontro con i Rohingya.

«Io sapevo – ha detto Francesco – che avrei incontrato i Rohingya. Non sapevo né dove, né come, ma questo era condizione del viaggio, per me, e si preparavano i modi. (…) Alla fine sono venuti. Erano spaventati, non sapevano. Qualcuno aveva detto loro: “Voi salutate il papa, non dite nulla” – qualcuno che non era del governo del Bangladesh – gente che si occupava dei contatti… Poi è arrivato il momento che loro venissero per salutarmi, in fila indiana – quello non mi è piaciuto, uno dopo l’altro –; ma subito volevano cacciarli via dal palco. E io lì mi sono arrabbiato e ho sgridato un po’ – sono peccatore – e ho detto tante volte la parola “rispetto”, “rispetto”. Ho fermato la cosa, e loro sono rimasti lì. Poi, dopo averli ascoltati a uno a uno con l’interprete che parlava la loro lingua, io cominciai a sentire qualcosa dentro: “Ma io non posso lasciarli andare senza dire una parola”, e ho chiesto il microfono. E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono. Credo due volte, non ricordo».

Ecco: non una strategia, ma un incontro, non le parole della diplomazia, ma della profezia.

La parola del Vangelo e del perdono, non i calcoli della politica.

Si è molto discusso sulla visita in Myanmar, su quello che il papa avrebbe detto e Francesco sceglie la via dell’incontro senza tatticismi. Egli non vuole giudicare e rompere, ma incontrare e amare. Il papa insiste sul fatto che il messaggio possa e debba arrivare, senza inutili e astute operazioni, in modo che il suo messaggio sia ascoltato.

Il papa dice in modo molto netto che si è arrabbiato di fronte all’uso di questo popolo, che viene gestito in modo propagandistico.

Il papa, di fronte a questa situazione paradossale, decide di parlare a braccio, decide di dire una parola e chiede il microfono: «E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono. Credo due volte, non ricordo. Ma la sua domanda – dice il papa ad un giornalista – è “cosa ho sentito”: in quel momento, io piangevo. Facevo in modo che non si vedesse. Loro piangevano, pure. E poi, ho pensato che eravamo in un incontro interreligioso, mentre i leader delle altre tradizioni religiose erano lontani. [Allora ho detto:] “No, venite anche voi: questi sono i rohingya di tutti noi”. E loro hanno salutato».

Ecco la forza delle lacrime dei Rohinghya e del papa, la forza del perdono delle vittime, la forza dell’incontro e della riconciliazione. Si è passati da una operazione di propaganda alla celebrazione del cuore del Vangelo come perdono. Papa Francesco ha cambiato la scena, ha messo al centro la parola e lo stile di Gesù, non degli attivisti e di coloro che esibiscono la propaganda, anche a fin di bene.

Le lacrime hanno unito la delegazione dei Rohingya e il papa, venuto da pellegrino disarmato, forte solo della sua debolezza e della sua fragilità, che si arrabbia per difendere le vittime, spesso usate dalla propaganda politica. E il papa chiede ancora qualcos’altro. Chiede che un imam Rohingya preghi per loro e per tutti. La preghiera avvolge tutti, la preghiera delle vittime unisce tutti, di tutte le religioni. Un povero imam musulmano Rohingya compone la preghiera debole e disarmata di tutti. Una pagina di Vangelo unica, che indica lo stile del Vangelo, che è la cifra di questo straordinario pellegrinaggio di pace.

Dunque consegnare il messaggio in forza della verità crocifissa. Ecco la conversione, la pace il martirio. Ecco il cuore della vita cristiana. Tutto si spreca, quando facciamo propaganda e depotenziamo la parola.

Infine il papa ha risposto ad una domanda sulla guerra, mettendo a confronto il pensiero di Giovanni Paolo II sulla deterrenza e la sua posizione oggi. Ci sono trentaquattro anni di distanza, che cambiano totalmente la percezione del problema. Papa Francesco dice, riprendendo l’ispirazione di san Giovanni del Concilio, che è cambiata l’irrazionalità della guerra. «Siamo al limite della liceità di avere e usare le armi nucleari. Perché? Perché oggi, con l’arsenale nucleare così sofisticato, si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno gran parte dell’umanità. (…) Che cosa è cambiato? Questo. La crescita dell’armamento nucleare».

Le parole del Papa sono confermate dalle quindicimila armi nucleari, presenti e operanti in più di dieci Paesi. Un numero fuori controllo, che domanda una meditazione nuova, un diverso pensiero. Il papa mostra di essere contro non solo l’uso, ma il possesso delle armi. Il tempo ci chiama ad una nuova sapienza del Vangelo, che viene da una nuova coscienza storica della questione nucleare.

Forse è venuto il tempo, l’urgenza di una nuova parola sulla guerra e sulle armi. L’antica teologia della guerra va cancellata, in modo semplice e netto, senza incertezze né astuzie.

L’irrazionalità dell’arma atomica rigetta non solo l’uso, ma anche il possesso delle armi atomiche. Il papa ha posto la questione guardando al cuore della grande Asia, là dove il confronto tra i leaders del mondo avviene.

Papa Francesco ci indica la via della parresia non solo come metodo, ma anche come contenuto della parola della pace, unico strumento per salvare il mondo dalla catastrofe. Raccontare la pace è raccontare il perdono. La pace e il perdono hanno la loro radice nella parresia, che ha la forza di dire tutto il Vangelo.

 

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