Rodin, la carne nel marmo

In mostra fino al 3 giugno a Treviso

Fanno impressione, nella rassegna organizzata da Marco Goldin a Treviso, non tanto e non solo le grandi sculture del Pensatore, di Balzac, il Monumento ai Borghesi di Calais, ma le opere di dimensioni più modeste. E non per questo meno poetiche. O meno espressive. Nei saloni del rinnovato Museo di Santa Caterina (da gustare la Pinacoteca e la mostra su Arturo Martini, un regalo in aggiunta) si respira certo l’aria del fare grande michelangiolesco, tanto caro all’artista francese.  Ma esso non investe e non dipende solo dalle dimensioni delle opere. C’è un respiro così aperto  nei marmi di Rodin che fa immediatamente pensare ai dipinti di Monet. In quelle tele è la natura a sfaldarsi in colore delineando un cosmo multicolore fascinoso e palpabile, mentre in Rodin il marmo si frange: e si fa carne. Potremmo affermare che l’arte dello scultore è una poesia dell’incarnazione, ossia della materia che prende forma, ottiene il soffio della vita.

Paolo e Francesca tra le nuvole (1904-1905) vede lievitare il marmo come  vento, bacia le nubi e le dissolve così da formare una conchiglia in cui i corpi dei due innamorati viaggiano eternamente uniti. E’ amore, certamente,un amore-passione che dà anima alla materia. Rodin acutamente alterna il non-finito alla compiutezza in due momenti lirici: uno di stasi, l’altro di abbandono. Identica la poesia de Il Giorno e La Notte (1909): il gigantismo michelangiolesco si minimizza, ma non muore, perchè  i due corpi   escono dal marmo scheggiato ad affrontarsi in una lotta che  sembra quella eterna tra bene e male, vita e morte. Non è forse questo che suggerisce il bronzo la Cattedrale (1908), due grandi mani intrecciate,simbolo di una preghiera di anime fuse nell’essenziale: la visione spirituale che accoglie in sè lo spazio fisico e interiore, grazie alla luce che scorre per la materia?.

La luce, è lei la vera protagonista dell’arte di Rodin, quelle che fa del marmo,carne e sangue. Nell’opera forse più celebre, Il Bacio (1881-1882), sia nella versione in gesso che in quella in marmo, si celebra l’intimità di una coppia, l’espressione intensa dell’amore. A torto giudicata scandalosa al suo apparire, l’opera, che sussulta alla luce, è una sintesi piena di pathos di un incontro di sentimenti profondi, dove anima  e corpo si uniscono in qualcosa che sa di eternità.

E che Rodin avesse il senso dell’eternità lo dice l’altra opera famosa, il Pensatore ciclopico (1903) destinato alla Porta dell’Inferno di Dante: un poeta seduto sulla roccia che riflette sul destino del mondo. Un pensiero insondabile,risoluto come un blocco, toccato da un lume pesante come la riflessione. Diverso dal bronzo che si scaglia verso il cielo,  leggerissimo, del Figlio prodigo (1906): un grido  all’universo perchè  accolga lo spasimo dell’umanità, nella luce che quasi scoglie il bronzo in carne e ammorbidisce il dolore. E’ questa infatti la luce di Rodin: palpitazione che dissolve la materia in respiro di corpi e di anime che amano la vita. Non diversamente dalle nature luminescenti di un Monet. Da non perdere.

Treviso, fino al 3 giugno (catalogo Linea d’ombra)

 

 

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