Ripartire dalle città

Le nuove sfide possono essere affrontate solo cominciando dal locale: se ne discute a Firenze alla giornate dell'interdipendenza.
Barber

«Sinora abbiamo fatto esperienza solo degli elementi negativi della globalizzazione e dell’interdipendenza»: è partito con una provocazione Andrea Olivero, presidente della Acli, nell’aprire i lavori delle Giornate dell’interdipendenza 2009 a Firenze . L’11 settembre, la crisi economica, il capitalismo selvaggio: sinora sembra che la globalizzazione significhi solo questo. «Siamo dunque di fronte alla sfida di farla diventare qualcosa di positivo – ha affermato Olivero – sulla scorta di quanto ha affermato anche il papa nella Caritas in veritate: l’umanità è oggi molto più vicina che in passato, e dobbiamo far diventare questa vicinanza vera comunione».

 

Per farlo è necessario partire ciascuno dalla propria specificità, dalla realtà locale: non a caso la prima sessione di lavoro aveva come tema “Global cities: persone, popoli e culture”, a sottolineare la centralità dei singoli, delle associazioni e del contesto cittadino sempre più multiculturale in questo processo. A portare la testimonianza dell’impegno degli enti locali in questo senso è stato Massimo Toschi, assessore regionale della Toscana. «Le vecchie parole della politica non funzionano più – ha affermato – occorre trovare parole nuove e persone credibili per arrivare al riconoscimento e all’accoglienza di tutte le diversità. Perché l’unità del mondo non è il governo di uno solo, ma stare seduti ad una mensa comune».

 

Le domande che si aprono in una città globale, ha sottolineato il direttore di Città Nuova Michele Zanzucchi, sono numerose: può esserci una governance globale? Una democrazia globale, capace di penetrare in culture e società diverse senza distruggerle? O bisogna piuttosto lavorare sul pre-politico, sul sociale, sull’educazione? La globalizzazione può gestire il mondo? A rispondere è stato Benjamin Barber, politologo americano e fondatore della giornate dell’interdipendenza nel 2003. «Ci incontriamo nel mezzo di due date importanti – ha osservato – l’11/9 e il 9/11, l’attacco alle Torri gemelle e la caduta del muro di Berlino: la sfida e la speranza della globalizzazione». Il muro demolito vent’anni fa, però sembra essere stato sostituito con altri: «Basti pensare a quello lungo la frontiera tra Usa e Messico, a quello in Palestina, o a quello che si vuole costruire attorno all’Europa per arginare il flusso di immigrati. Ma le migrazioni non seguono la logica degli Stati, bensì quella dell’economia. I muri, che hanno funzionato perfettamente nel medioevo, oggi non servono più».

Proprio nella discrepanza tra la realtà dei fatti e la forma delle istituzioni, secondo Barber, sta il cuore della questione: «Ci troviamo ad affrontare problemi globali con istituzioni che invece rimangono nazionali, anche all’interno di assemblee come l’Onu». Il politologo identifica tre crisi globali che oggi attanagliano il mondo: quella economica, quella climatica e quella culturale, che alcuni hanno definito “scontro di civiltà”. «Queste tre crisi hanno una radice unica – ha fatto notare Barber – la mancanza di fiducia. Le banche si basano sulla fiducia tra istituto e risparmiatori, la convivenza sulla fiducia nell’altro. Invece siamo caduti in una politica di paura e di indipendenza, illudendoci di poter risolvere da soli problemi che sono interdipendenti».

Eppure, poiché l’interdipendenza ci costringe a relazionarci con l’altro, la strada è la costruzione di qualcosa di nuovo: «Si tratta di creare nuove istituzioni che portino ad una globalizzazione democratica, al posto di quella anarchica attuale. Le singole città multiculturali sono il modello ideale: partecipiamo a livello locale, ma all’interno di una rete di potere globale. Le città appartengono al mondo intero molto più delle singole nazioni, ancora ancorate alla propria sovranità».

 

Nel mondo, qualche esperienza di questo genere già c’è: il fisico Ugo Amaldi, già ricercatore al Cern di Ginevra, ha fatto notare come tra gli scienziati l’interdipendenza sia realtà già da anni, per mettere in comune le conoscenze e creare gruppi di ricerca: «Non dimentichiamo che, vent’anni fa esatti a Ginevra, venne messo a punto il web proprio con questo scopo» ha osservato. Il prossimo passo, secondo Amaldi, è estendere quest’interdipendenza alla società civile, così che i cittadini, correttamente informati sulle questioni scientifiche, possano prendere decisioni consapevoli – ad esempio sulla reintroduzione del nucleare – e i ricercatori possano avere un dialogo fecondo riguardo al loro lavoro anche all’esterno della loro cerchia.

Il deputato brasiliano Luiz Carlos Hauly ha quindi portato l’esperienza del Forum interparlamentare delle Americhe, di cui è presidente: un organismo che, sul modello del parlamento Europeo, rappresenta tutti e 35 gli Stati del continente. L’obiettivo è armonizzare lo sviluppo tra i Paesi, riducendo le differenze tra i più ricchi e più poveri. Alcune iniziative sono già realtà in Brasile: «Abbiamo una banca dello sviluppo per finanziare i nostri vicini in difficoltà – ha spiegato Hauly – e diversi progetti di cooperativismo solidale». Il deputato ha confermato la linea di Barber riguardo alla necessità di partire dalle città: «Lo Stato è una realtà astratta, la comunità invece è concreta».

 

Gli interventi hanno poi suscitato un fecondo dibattito, introdotto dall’ex presidente di Legambiente sen. Roberto Della Seta che ha fatto notare come proprio in Italia le giornate dell’interdipendenza abbiano trovato casa: «Credo non sia un caso: nel nostro Paese c’è un deficit nel modo di leggere l’interdipendenza sia in politica, che nell’economia, che nella società. Abbiamo poca consapevolezza dei legami profondi tra ciò che succede qui e altrove». Eppure abbiamo già un prezioso patrimonio da cui partire: «La realtà dell’associazionismo è già interdipendente da tempo». Ancora una volta, si parte dalla base.

 

 

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