Ricercando i “segni dei tempi” nella politica del dopo voto

Intervista al politologo Paolo Pombeni sull’analisi dell’attuale congiuntura politica a partire dall’insegnamento di Aldo Moro e le sfide attuali dell’Italia post elezioni del 4 marzo
ANSA/GIUSEPPE LAMI

Con i risultati delle elezioni delle elezioni del 4 marzo 2018 stiamo vivendo una fase storica completamente nuova e inedita anche per gli analisti più attenti. Il professor Paolo Pombeni è autore di testi fondamentali nel campo del pensiero politico, con Città Nuova ha pubblicato “La politica dei cattolici dal Risorgimento ad oggi”. Da pochissimo è uscita con l’editore Il Mulino una sua densa ma agile riflessione sull’eredità del ’68 (“Che cosa resta del ’68”) che investe la stretta attualità dei nostri giorni. Pombeni è  editorialista de Il Sole 24 Ore ma anche del settimanale Vita Trentina, scrivendo, cioè, da un territorio che ha registrato una crescita della Lega e del M5S sul Pd che raccoglieva finora i frutti di una lunga tradizione cattolico democratica e di sinistra.

Con questa intervista che ci ha rilasciato partiamo dal caso Moro un altro evento che, 10 anni dopo l’inizio della contestazione giovanile, rappresenta una frattura non ancora ricomposta nel nostro Paese.

L’anniversario del rapimento e uccisione di Aldo Moro, e la strage degli uomini che lo proteggevano, è calato in una realtà politica che sembra completamente mutata rispetto al 1978. Si possono trovare nella analisi e visione di lungo periodo del leader dell’allora Democrazia Cristiana una chiave di lettura della situazione attuale?

Una personalità come quella di Moro era molto attenta a leggere quelli che dopo papa Giovanni si chiamavano “i segni dei tempi” e dunque rileggere le sue riflessioni è utile anche per un contesto assai mutato come quello attuale. Soprattutto rimane forte la sua visione che si stesse aprendo quella che chiamò “una terza fase” e che non va intesa come il problema dell’intesa di governo fra Dc e Pci e neppure come promozione della “alternanza”. Moro aveva capito che quel mondo che i giovani del post 1945 avevano visto sorgere come un mondo nuovo non era in realtà che il perfezionamento, sia pure in positivo, di un trend storico che però sarebbe entrato in crisi irreversibile con l’emergere di un nuovo contesto. Lo capì fin da quando fu uno dei pochi dirigenti della Dc (ma direi anche della gerarchia cattolica) a soffermarsi pensosamente e con simpatia verso quel che stava succedendo con i sommovimenti giovanili del 1968. Se si leggono le sue lettere dal carcere delle Br si capisce che ormai aveva maturato l’idea che quel mutamento andasse preso di petto e che fosse necessaria una nuova classe dirigente capace di misurarsi con esso. Credo che questa sia la lezione che dobbiamo trarre dalla celebrazione di quell’anniversario.

A proposito della capacità di una classe dirigente, osserviamo in questi giorni, sul piano delle politiche internazionali, con l’arresto dell’ex presidente francese non si rende evidente una pochezza italiana, a cominciare dalla mancata opposizione alla guerra in Libia nel 2011? 

La politica internazionale non è mai stata un punto di forza delle classi dirigenti italiane. La nostra opinione pubblica non presta molta attenzione a quel che i politici fanno sul terreno degli affari esteri. La questione dell’immigrazione ha progressivamente monopolizzato l’interesse pubblico, ma prima c’è stata la grande crisi economica con il trauma dello spread. Questi fattori hanno condizionato la capacità italiana di agire in maniera adeguata sia a livello di Unione Europea sia a livello dei rapporti bilaterali con i partner internazionali. Purtroppo non riusciamo a capire che un buon ministro degli Esteri è qualcosa di assolutamente necessario per un Paese come il nostro. Del resto non investiamo in sedi di eccellenza per formare una classe dirigente con adeguate sensibilità su quei terreni: basta vedere il disinteresse per le nostre facoltà di Scienze politiche come incubatori di classi dirigenti, mentre continuiamo a credere che i luoghi deputati a quello siano le facoltà giuridiche, economiche o ingegneristiche.

Come legge la situazione attuale?

La situazione attuale è indubbiamente preoccupante perché da un lato si stanno dissolvendo i canali di disciplinamento positivo dell’opinione pubblica, come erano i grandi partiti tradizionali, e dall’altro la situazione sociale si sta degradando per il venir meno dei tradizionali canali di sostegno comunitario. Siamo in presenza del classico fenomeno che scuote una società in crisi: di fronte alle angosce si cercano vie di fuga tanto nelle utopie quanto nelle consolazioni del “tanto tutto si aggiusta”. Forze politiche davvero consapevoli della drammaticità di questa situazione ne vedo poche, perché hanno paura di ammettere la loro impotenza (che in qualche caso fa anche guadagnare loro voti) e di conseguenza la necessità di un lavoro di ricerca in cui tutti si mettono alla stanga a tirare il carro. È venuta meno la selezione aperta delle èlite e la loro circolazione: non c’è da meravigliarsi se coloro che hanno inaridito queste sorgenti di rinnovamento vengono abbandonati al loro destino.

Quali sono le scelte ineludibili che il prossimo governo deve affrontare?

I problemi maggiori che il futuro governo deve affrontare si riassumono nella esigenza di stabilizzare il nostro sistema sociale e culturale. Significa equilibrare il sistema economico in modo che offra opportunità di lavoro a tutti e che rinunci alla prospettiva del capitalismo selvaggio basato sulla rincorsa al profitto per pochi. Significa ricostruire le reti sociali, da quelle familiari, a quelle di comunità territoriali e di elezione, dando veramente corso ad un impiego massiccio del principio di sussidiarietà e dismettendo la logica della distribuzione selvaggia dei benefici ai propri clientes. Significa tornare a capire che c’è bisogno di cultura e non di intrattenimento e che un Paese non costruisce legami di comprensione con una realtà inquietante correndo dietro a tutte le demagogie dei talk show e alle costruzioni artificiali di pseudo esperti con il compito di imbonitori.

In tale quadro, come valuta la presenza dei cattolici nelle diverse formazioni partitiche? Sono del tutto irrilevanti? Oppure bisogna cambiare prospettiva di analisi e valutazione?  

Oggi una presenza forte di cattolici non è individuabile in nessuna delle formazioni in campo. Non è un giudizio sulla fede dei singoli che può venire valutata solo da Colui che legge nei cuori. È la constatazione che mentre la società guarda con forte interesse alle personalità religiose che sanno dare parole forti di speranza caritatevole (penso innanzitutto a papa Francesco, ma anche, per fare un esempio, al successo dell’arcivescovo Zuppi a Bologna), non si coglie negli uomini politici identificati come cattolici quella capacità dell’annuncio di salvezza che definirei “misericordioso” in senso tecnico. C’è anche scarsa capacità di cogliere alcune presenze nel mondo della cultura, nel mondo sociale che pure agiscono, con i limiti umani ovviamente, in una logica di “carità” e di “fraternità” e che dunque sono testimoni della luce di una fede consapevole. Penso sia dovuto al fatto che è invalsa ancora l’attitudine a considerare alfieri della presenza cristiana solo coloro che sono inquadrati in qualche organizzazione o sede che inalbera quella specifica bandiera. Nel mondo d’oggi credo invece che bisognerebbe abituarsi a cercare quelle figure fra i “pubblicani” (se non è ardito parafrasare la parabola evangelica).

 

 

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