Referendum sul lavoro: meno flessibilità e più vincoli per le imprese

Contributo al dibattito sul referendum sul lavoro. Le ragioni contrarie al SI sui 4 quesiti.
Si avvicina la data del 8 e 9 giugno, in cui i cittadini italiani saranno chiamati ad esprimersi su alcuni quesiti, 4 riguardano il tema del lavoro ed uno sulla cittadinanza. Analizzo in questo articolo i primi 4 quesiti fornendo delle personali riflessioni.
Tre dei quesiti in questione riguardano il tema dei licenziamenti illegittimi e delle assunzioni a tempo determinato. I referendum sul lavoro sono promossi dalla CGIL che, insieme agli altri sindacati, ha ottenuto nel tempo un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori svolgendo un servizio prezioso.
Mi sembra però che il mondo sia cambiato rispetto al 1968 e alle lotte “di classe” tra lavoratori e “padroni”, mentre l’approccio di CGIL continua ad essere lo stesso, personalmente lo trovo di ostacolo alla regolamentazione di un mondo del lavoro moderno ed efficace.
Nel merito, si punta ad un sostanziale ridimensionamento del Jobs Act del governo Renzi che eliminava nella maggior parte dei casi l’obbligo di reintegro del lavoratore sul posto di lavoro sostituendolo con un indennizzo economico. In dettaglio i primi due quesiti abrogano la disciplina del licenziamento illegittimo e il limite di 12 mensilità di indennizzo per le aziende sino a 16 dipendenti, facendolo stabilire dal giudice.
Non entro nella questione tecnica, non essendo un esperto di diritto del lavoro, mi limito ad osservare che il referendum non è a mio parere lo strumento adatto per entrare in una materia complessa ed articolata, ad esempio la reintegra ad oggi è ancora possibile per i casi di licenziamento discriminatorio, nullo o disciplinare palesemente infondato. Inoltre parliamo (dati INPS) di circa 108.000 licenziamenti disciplinari nel 2023, di cui non sappiamo quanti illegittimi e non discriminatori o infondati. Se fossero il 10%, dato sicuramente sovrastimato, parleremmo di 10.800 casi, a fronte di 18 milioni di lavoratori in Italia. Parliamo quindi dello 0,06% dei contratti di lavoro: ha senso chiamare tutti gli italiani a un referendum su questo ?
Vengo alla questione politica, quando si arriva ad un licenziamento si è rotto il rapporto di fiducia tra l’azienda e il lavoratore. Non sarà il pronunciamento di un giudice a ripristinarlo, pertanto una forzatura in tal senso ritengo che non faccia bene né all’azienda né al lavoratore, che invece con un adeguato indennizzo può trovare soluzioni alternative. Se il lavoratore ha difficoltà a trovare alternative direi che c’è un altro problema cioè quello della formazione e dell’approccio al lavoro che evidentemente non sono state sufficientemente sviluppate negli anni. Andando ad analizzare altri Paesi europei, solo in Portogallo e Repubblica Ceca c’è una normativa di reintegro simile a quella vigente in Italia sino al 2014 ed effettivamente applicata.
Per esperienza personale posso dire che trovare manodopera qualificata è un problema enorme ad oggi nelle aziende, quindi nessuno si diverte a licenziare persone se sono valide ed hanno un approccio positivo al lavoro. Altro aspetto fondamentale è che le aziende, se hanno maggiore libertà di rinunciare ad un lavoratore, possono assumersi qualche rischio in più nell’assumere, da qui la querelle tra la premier Meloni e il senatore Renzi sull’aumento di oltre 1.600.000 occupati in Italia dal 2022 al 2024 dove la prima rivendica il risultato al governo e Renzi al suo Jobs Act: il risultato comunque c’è.
Il terzo quesito riguarda l’obbligo di specificare una causale per i contratti a tempo determinato. Anche questo lo considero un quesito ideologico: si vuol obbligare l’azienda, anziché lasciarle libertà di scelta, ad assumere sempre a tempo indeterminato salvo casi particolari da dover sempre giustificare, con relativi limiti di legge a questo tipo di assunzioni.
Questa normativa, già esistente e modificata dal Parlamento, creava parecchi problemi a chi deve assumere lavoratori stagionali o comunque lavora per progetti o deve far fronte a picchi di lavoro e successivi cali, situazioni assai diffuse. Anche qui, si limita la libertà dell’imprenditore di decidere di quanta manodopera ha bisogno e quando ne ha bisogno per il funzionamento dell’impresa, aumentandone i costi fissi.
Non voglio qua fare l’apologia dell’imprenditore né negare che possano esserci abusi su determinati strumenti, come peraltro ci sono anche da parte dei dipendenti talvolta (vedi legge 104 e simili) , ma credo che irrigidire il mercato del lavoro su tutte le aziende per magari un 1% di casi di abuso sia davvero controproducente. Anche qua, parlano i numeri che vedono negli ultimi anni a normativa vigente un costante calo dei contratti a tempo determinato (-10% nel 2023 sul 2022) e un aumento dei contratti a tempo indeterminato (+3,1% nello stesso periodo).
L’ultimo quesito sul lavoro riguarda invece la sicurezza e in dettaglio la abrogazione della norma che limita la responsabilità del committente ai cosiddetti “rischi interferenziali”, cioè danni non connessi ai rischi specifici della attività svolta, lasciando la responsabilità specifica all’appaltatore o subappaltatore. Facciamo un esempio, se una azienda appalta un lavoro edile e il lavoratore cade perché l’azienda appaltatrice non gli ha fornito i dispositivi adeguati, ad oggi il committente non è responsabile, se passa il referendum lo sarebbe.
Tale abrogazione, anch’essa molto tecnica e sicuramente parecchio ostica al cittadino da comprendere, di fatto introduce maggiori oneri di sorveglianza a carico di chi appalta lavori a terzi: cioè appalto un lavoro perché non è il mio mestiere ma poi devo saperlo fare meglio di quelli a cui lo appalto, per poterli controllare sui rischi delle loro attività specifiche.
Anche qui un intento buono, quello di ridurre gli infortuni sul lavoro, declinato con un approccio dirigista che considera sempre gli imprenditori come “il cattivo” e quindi riempie il codice di norme per ridurne gli spazi di libertà ed aumentar loro i costi finisce per avere un effetto depressivo sull’economia, che alla fine pagano soprattutto i lavoratori.
Va infatti ricordato come fatto difficilmente contestabile che se nell’ultimo secolo e mezzo sono migliorate in modo mai avvenuto prima le condizioni di vita delle famiglie soprattutto nel mondo occidentale, ma non solo, il merito non va tanto alle pur sacrosante battaglie sindacali ma alla democrazia e alla libera economia che hanno consentito uno sviluppo senza precedenti nella storia.
Contributo al dibattito sul focus promosso da Città Nuova vedi qui
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