Referendum sul lavoro, impresa (quasi) impossibile

I referendum sul lavoro e la cittadinanza dell’8 e 9 giugno 2025 cadono nel tempo in cui il papa appena eletto ha deciso di chiamarsi Leone XIV proprio per rimettere al centro la questione sociale e della dignità della persona umana.

ANSA / CIRO FUSCO
Concentrando l’attenzione in questo articolo sul tema del lavoro, si deve osservare che, nonostante gli sforzi dei promotori, i contenuti dei quesiti referendari sono tuttavia poco noti ai potenziali elettori in un Paese che vede il più deciso calo di affluenza alle urne nella storia occidentale. Solo il 63,78% si è recato a votare nelle elezioni politiche del 2022 (contro il 72,9% del 2018). Ma tale percentuale sarebbe comunque un successo per il referendum che, per essere valido, deve superare l’asticella del 50% +1 degli aventi diritto al voto.

Obiettivo che appare quasi impossibile considerando la composizione attuale dei partiti che sostengono l’abrogazione di una parte significativa del Jobs act, la legge di riforma del diritto del lavoro del 2014 fortemente voluta dal governo guidato dal Matteo Renzi durante la fase riformista del Pd. L’ex sindaco di Firenze riuscì infatti a diventare segretario del maggior partito del centro sinistra, erede principalmente del Pci e della sinistra Dc, provocando una scissione di alcuni esponenti che diedero vita alla formazione Art.1 proprio in ragione della priorità da dare, secondo Costituzione, al lavoro come fondamento della Repubblica democratica.
Mutati gli equilibri tra i dem, i transfughi dell’Art. 1, tra i quali gli ex segretari D’Alema e Bersani, sono rientrati nel Pd, dopo aver sperimentato la scarsa attrattività elettorale della loro lista. Non tutti i “renziani” hanno tuttavia seguito Matteo Renzi, che ha dato vita al partito Italia Viva che ha tentato un’alleanza elettorale, poi fallita, con Azione, altra componente liberal fuoriuscita dal Pd per seguire la leadership di Carlo Calenda.
Entrambi non hanno avuto i numeri per eleggere deputati al Parlamento europeo nel 2024, ma sono alquanto presenti sui media condividendo, tra l’altro, l’avversione per i quesiti abrogativi del referendum dell’8 e 9 giugno che hanno come grande sostenitore il sindacato della Cgil, che ha raccolto 4 milioni di firme a sostegno dell’istanza consegnata alla Corte di Cassazione per la verifica preventiva dell’ammissibilità del referendum.
La Cgil resta la maggiore organizzazione dei lavoratori in Italia, nonostante la concorrenza a sinistra di una vasta area di sigle antagoniste, e la competizione della Uil e soprattutto della Cisl che ha un forte radicamento nel pubblico impiego.

ANSA / CIRO FUSCO
Il sindacato guidato da Maurizio Landini ormai non esprime più la cintura di trasmissione del maggior partito della sinistra, come un tempo avveniva con il Pci che non esiste più, ma rappresenta una realtà che intende esprimere una visione complessiva di società come si può vedere, ad esempio, dal percorso de “La via maestra, insieme per la Costituzione” promosso assieme a Libera con l’adesione di oltre 100 associazioni.
Esiste cioè una visione “laburista” che, rifacendosi alla Costituzione che resta sempre da attuare, denota una linea politica organica alternativa all’egemonia tecnocratica e liberal liberista che ha fatto breccia nel centro sinistra almeno dal periodo della terza via di Tony Blair. Molto prima, cioè, di Renzi e di tanti esponenti dem che si sono posti su tale scia.
Landini ha evocato la necessità di una rivolta sociale davanti alla crescita delle disparità e all’impoverimento di gran parte delle famiglie che non arrivano a fine mese, avendo un posto di lavoro sempre più precario e instabile. L’allarme mediatico per il termine “rivolta” si è poi tradotto non nell’invito all’occupazione delle fabbriche, ma nel ricorso agli strumenti democratici come appunto è il referendum; necessario per cambiare una normativa considerata ingiusta, con l’aggravante di essere stata introdotta da un governo di centro sinistra. Lo slogan “La nostra rivolta è il voto”, accompagnato da volti sorridenti e propositivi, è lo strumento propagandistico scelto per veicolare il messaggio.
Basterà per superare lo sbarramento del 50% degli aventi diritto che andranno alle urne l’8 e 9 maggio? L’obiettivo appare quasi impossibile anche in considerazione dell’aperto dissenso di una parte del Pd, che è apertamente contraria alla decisione della segretaria nazionale Elly Schlein di esporre il partito a favore del SI al referendum assieme al M5S e Alleanza Verdi e Sinistra.
È lo stesso Stefano Bonaccini, presidente del Pd, ad esprimersi per il NO sui quesiti proposti dalla Cgil; in linea con la linea della sua corrente interna al partito, denominata “energia popolare”, che ha prevalso tra i tesserati nel voto per la segreteria democratica. In altri tempi sarebbe apparsa inconcepibile una spaccatura tra la Cgil e l’ex presidente della Regione “rossa” per antonomasia, l’Emilia Romagna.
La scelta di andare a votare salva tuttavia la possibilità di superare il quorum richiesto per la validità del referendum abrogativo. Mentre la vera decisione finalizzata a rendere vana l’intera iniziativa è quella di astenersi dal recarsi alle urne. Si rivelò un boomerang il famoso invito di andare al mare invece che in cabina elettorale lanciato da Bettino Craxi per far fallire il referendum sulla legge elettorale. Ma all’epoca esisteva, al di là del merito, una volontà popolare diffusa di punire una classe politica percepita come corrotta e inefficiente.
Stavolta non sembra trovare ostacoli l’astensionismo sostenuto apertamente dalla maggioranza governativa, a partire dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, che pure dovrebbe mantenere un profilo istituzionale. Anche la segreteria generale della Cisl, Fumarola, ha dichiarato che non si recherà alle urne, confermando una rottura sempre più profonda tra i sindacati.

L’invito all’astensionismo promosso dalla Cei guidata da Ruini si è rivelato decisivo nei referendum del 2005 sulla materia della procreazione assistita. Ma anche Ds e Margherita hanno invitato a disertare i seggi quando nel 2003 Rifondazione comunista propose un referendum che avrebbe permesso la reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati anche nelle piccole imprese.
L’unica remota possibilità di ottenere un successo tale da invertire ogni più nera previsione per le sorti del referendum è rappresentata dalla decisione delle singole persone che condivideranno il merito delle proposte referendarie.
Come noto, in Italia si partecipa al referendum barrando il SI o il NO esposti nella scheda dopo un quesito che richiede il parere sull’abrogazione di una determinata norma.
Il primo quesito chiede di abrogare la norma del Jobs act che, per le imprese con oltre 15 dipendenti, ha introdotto la regola del contratto a tutele crescenti per le persone assunte a partire dal 7 marzo 2015. Tali lavoratori non possono chiedere e ottenere la reintegrazione sul posto di lavoro in caso di licenziamento giudicato privo di giusta causa o giustificato motivo. Al posto della reintegra è previsto un rimborso quantificato in base all’anzianità lavorativa. Con tale norma esistono di fatto due regimi diversi per i dipendenti, a seconda della data della loro assunzione.
Il secondo quesito chiede di rimuovere una norma del 1990 relativa alle piccole imprese, quelle cioè con un numero di dipendenti inferiori a 16, che fissa il limite massimo di 6 mensilità di indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato. Ciò vuol dire che in mancanza della reintegra sul posti di lavoro, impossibile in tale tipologia di imprese, sarà il giudice a valutare la misura del risarcimento dovuto al dipendente licenziato ingiustamente.
Con il terzo quesito si intende abrogare una normativa del 2015 che ha introdotto la possibilità di stipulare contratti a termine fino a 12 mesi senza indicare il motivo che giustifica il limite temporale dell’attività. L’intenzione è quella di contrastare il lavoro precario reintroducendo l’indicazione delle cause dei contratti a tempo determinato con l’intenzione evidente di promuovere quelli a tempo indeterminato.
Il quarto quesito, infine, intende rimuovere una serie di norme che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Secondo i promotori del referendum queste leggi, abbattendo i costi dell’impresa maggiore, sono all’origine della prassi che favorisce il ricorso ad appaltatori senza solidità finanziaria e spesso non in regola con le norme antinfortunistiche.
Le materie toccate dal referendum sono quindi molto concrete, ma rimandano ad un dibattito che alcuni considerano ormai superato in considerazione dell’organizzazione del lavoro che ha finito per imporsi.
Sembra molto ottimista il sondaggio Ipsos secondo cui «il 62% della popolazione è consapevole dell’imminente consultazione referendaria». Quanto alla partecipazione effettiva, il sondaggio afferma che al momento il massimo dell’affluenza è pari al 38% con la netta maggioranza del SI.
Ma, come è noto, la decisione di andare alle urne matura in prossimità dell’appuntamento elettorale. Secondo la Cgil sono oltre 3 milioni e mezzo le persone soggette al contratto a tutele crescenti, mentre superano il limite dei 3 milioni e 700 mila il numero dei dipendenti delle piccole imprese interessati ad una maggiore tutela in caso di licenziamenti illegittimi. Sono, inoltre, 2 milioni e 300 mila le persone che hanno contratti di lavoro a tempo determinato.
Numeri da moltiplicare per le reti familiari e amicali, anche se il conteggio puntuale dei numeri non potrà mai esprimere la forza collettiva di un reale movimento nella società.
La critica ricorrente nei confronti della proposta è quella di esprimere una battaglia ideologica che guarda al passato, mentre i proponenti affermano, al contrario, di voler dare la visione di un futuro degno per tutti.
Nei prossimi interventi prima della data dei referendum, cercheremo di dare spazio alle diverse posizioni in campo.