Referendum, perché votare sì

Continuano i contributi di Città Nuova per approfondire la riforma costituzionale, in vista del referendum che si svolgerà in autunno. Oggi tocca alle motivazioni di chi, pur esprimendo varie perplessità, sceglie di votare a favore delle modifiche introdotte dal governo
Il premier Renzi

Ci ricordiamo ancora i giorni della primavera del 1994. Berlusconi aveva vinto le elezioni politiche in marzo, le prime con legge maggioritaria, usando per la prima volta il nuovo sistema, figlio del referendum del 1993. Forza Italia, la Lega e Alleanza nazionale andarono al governo, con l’idea di cambiare la Costituzione. E il Paese si mobilitò intorno alla difesa dei valori della Costituzione.

 

Scriveva allora Dossetti, nel famoso intervento dal titolo “Sentinella quanto resta della notte?”: «Evidentemente i cattolici sono oggi posti di fronte ad una scelta, che non può essere che globale e innegoziabile, perché scelta non di azione di governo, ma di un aut aut istituzionale. Non si può in nessun modo indulgere alla formula giornalistica della "Seconda repubblica", impropria, anzi erronea imitazione del modo francese di numerare la successione delle forme costituzionali avvenuta nel Paese vicino». Ci ricordiamo tutti la retorica della Seconda Repubblica, a indicare un nuovismo a tutti i costi. Già nel linguaggio giornalistico si mostrava una relativizzazione costituzionale assolutamente sorprendente, nell’idea di una carta costituzionale “a la carte” da cambiare e aggiustare secondo interessi e forzature di chi aveva il governo, cercando il potere.

 

La gerarchia dei princìpi e la riforma degli strumenti

Dossetti marca subito il punto e rifiuta di essere collocato con chi non vuole cambiare niente in una prospettiva di una Costituzione pietrificata. Anzi, egli spinge verso un rinnovamento capace di rispondere in modo profondo ai cambiamenti importanti che hanno segnato la società italiana. Continua Dossetti: «Non si vuol dire che nel caso nostro non ci siano cose da cambiare, in corrispondenza delle grosse modificazioni intervenute nella nostra società negli ultimi decenni. È molto avvertita  per esempio una diffusa e pervasiva alterazione patologica dei rapporti tra privati, partiti e pubblica amministrazione; come pure la pletoricità e la macchinosità di un sistema amministrativo che non si adatta più alle dinamiche della società moderna, e ancor più la degenerazione privilegiaria e clientelare dello Stato sociale (tradito); la necessità di una lotta sincera e non simulata alla criminalità organizzata; e infine l’emergenza e la necessità di un'adeguata valorizzazione di una nuova classe operosa di piccoli e medi imprenditori. Si può aggiungere l’esigenza di uno sveltimento della produzione legislativa e perciò la riforma dell’attuale bicameralismo e soprattutto l’applicazione più effettiva e più penetrante delle autonomie locali».

 

Dunque nessuna visione pietrificata e passatista, ma disponibilità a riformare e a rinnovare, con alcuni paletti non superabili. Qui Dossetti indica in un crescendo quali sono questi paletti: «Ma c’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Certo oltrepasserebbe questa soglia una disarticolazione federalista come è stata più volte prospettata dalla Lega (questo è il primo livello: l’unità del Paese) e ancora oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai dritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dalla Costituzione, (secondo livello) e così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il princìpio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario,  cioè per ogni avvio di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito».

 

Dunque è possibile rinnovare, ma a certe condizioni, e comunque ci sono princìpi e valori che fondano la Costituzione e non sono in nessun modo a disposizione del legislatore.

 

Il primato dei princìpi

Nel discorso di Monteveglio del settembre 1994, in occasione della nascita dei comitati della Costituzione, egli indica quattro princìpi, a fondamento di tutto l’impianto e che non sono modificabili. Rappresentano la “gerarchia della verità”. Primo princìpio quello della unità e indivisibilità del popolo italiano e per conseguenza della sua espressione statuale, cioè la Repubblica italiana. Il princìpio personalistico (secondo), garantito per tutti i cittadini. In ognuno la Costituzione riconosce il valore insopprimibile e inviolabile della persona umana e quindi della pari dignità sociale e dell'eguaglianza davanti alla legge, senza nessuna distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di posizioni personali e sociali. Terzo princìpio è la consistenza istituzionale attribuita a corpi intermedi – fra la persona e lo Stato – territoriali e non territoriali (famiglie, comuni, regioni, scuole, confessioni religiose, etc.). Quarto princìpio la divisione dei poteri.

 

E conlude Dossetti, con riferimento al princìpio dell'autonomia della magistratura: la nostra Costituzione «assolutamente non può essere messa in pericolo da qualunque riforma che intacchi la totale indipendenza e unità (comprese le procure) dell’ordine giudiziario». Infine la Corte costituzionale nella sentenza n.1146/1988, afferma con forza una gerarchia delle verità o dei princìpi: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».

 

Il referendum confermativo

Dossetti dedica in quelle settimane di ventidue anni fa, una grande attenzione allo strumento del referendum e lo fa alla prima riunione dei comitati. Noi eravamo andati a Monteveglio per l’organizzazione dei comitati e lui ci parlava di referendum confermativo. Oggi, a distanza di oltre venti anni, comprendiamo meglio la visione di questo straordinario "grande vecchio": «Occorre spiegare alla gente – diceva – la differenza che ci può essere tra un vero referendum e un plebiscito. Il referendum implica, nel quadro di una vera democrazia, che sia sottoposto al popolo un quesito specifico, semplice, omogeneo, unitario, proposto alla scelta dell’elettore che deve esprimersi coerentemente con un globale "sì" oppure con un "no". Il referendum – questo mi sta molto a cuore – perde la sua vera natura quando non sia più referendum abrogativo (come sono stati sino ad ora i referendum sottoposti al nostro popolo), ma siano referendum confermativi di proposte organiche o di pacchetti di proposte (come saranno di certo i nuovi referendum). Il quesito non può più essere specifico, semplice, unitario ed omogeneo, come ha sempre richiesto la Corte costituzionale. In tal caso l’elettore non è più orientato a pronunziarsi nel merito delle proposte fatte, ma si orienta inevitabilmente sul quesito implicito di fiducia o sfiducia al governo o al regime proponente. È in questo modo che il referendum oltrepassa i limiti di una vera democrazia diretta e tende a trasformarsi in una forma plebiscitaria che è la tomba della vera democrazia. Potrebbe accadere, in misura ben peggiore e ben maggiore, quello che in parte è già avvenuto nei referendum del 18 aprile del '93, quando molti voti sono stati determinati più che da un consenso specifico alle proposte fatte, da un consenso ad una protesta generale contro il sistema vigente. Si espresse allora un rifiuto globale, soprattutto morale (cioè Tangentopoli) a tutta una classe dirigente, rifiuto mosso da varie e persino contrastanti motivazioni. Il che spiega come gli stessi proponenti e i partiti sostenitori dei referendum non hanno poi potuto gestire il risultato e si sono subito divisi secondo le varie motivazioni e correnti».

 

Alcune considerazioni sull’oggi

La nuova riforma della Costituzione non tocca in nessun modo e in nessun caso i princìpi fondativi della nostra Costituzione. Questo va detto e va rivendicato, perché molti dei tentativi di riforma puntavano ad abbattere i valori della nostra Costituzione. Quando Dossetti, da vero leader della Costituzione, ne prende la bandiera e la difende con vigore e intelligenza, lo fa perché sa che il Paese, se perde la Costituzione perde la sua bussola, il suo riferimento spirituale, civile, istituzionale. A mio parere la destra, nelle sua articolazioni, ha cercato di distruggere la Costituzione fino alla riforma di Lorenzago e al tormentone sulla giustizia politicizzata, in realtà difendendo unicamente gli interessi e affari del suo leader politico.

 

Il nuovo dettato costituzionale modifica l'articolo 43 della seconda parte della Costituzione e un articolo della prima parte, ne abroga quattro, cambia tre leggi costituzionali e introduce 21 nuovi commi come disposizioni transitorie. I punti qualificanti sono l’abolizione di un Senato elettivo e l’istituzione di un Senato delle autonomie, formato da 100 componenti; lo snellimento dei tempi per approvare le leggi, l’abolizione del Cnel, il riordino delle competenze tra Stato e Regioni con il ritorno allo Stato di materie strategiche per lo sviluppo e la programmazione economica del Paese. Vengono abolite formalmente anche le Province.

 

Dunque cambiamenti, riforme, ma non sui valori, per cui la posta in gioco riguarda punti che toccano questioni serie, ma modificabili attraverso una riforma costituzionale. E queste modifiche traggono alimento dalla cultura dei princìpi e dalla loro gerarchia, che influenza un passaggio della politica italiana ed europea.

 

A confronto dei populismi europei ed italiani, i valori della Costituzione e la loro riaffermazione senza sé e senza ma rappresentano il vero programma di governo di un centrosinistra che sia capace di costruire l’Italia e l’Europa intorno ai valori della persona e della solidarietà, dei diritti sociali e della pace, del lavoro e della democrazia, dell’autonomia della magistratura e della diffusione del potere. Non c’è bisogno di crisi di governo, ma di stabilità per realizzare il programma della Costituzione. E nessuno cerca di forzare la mano attraverso scorciatoie pericolose.

 

Dobbiamo rivendicare l’orgoglio della Costituzione come fondamento della vita di tutti, come possibilità di rinnovare le istituzioni, come politica capace di includere coloro che sono il dolore civile del nostro Paese, le persone più ferite, dai migranti ai senza diritti civili, ai disabili, ai senza dimora, a coloro che sono ai margini della strada e della vita. In concilio si usava lo strumento del placet, del non placet e del placet iuxta modum. Il referendum impedisce questa possibilità. Il mio placet significa il mio "sì" ai grandi princìpi costituzionali, fondativi della casa di tutti. Il mio "iuxta modum", secondo un modo, dunque con una riserva, legata a un testo con incertezze e fragilità, dalle Regioni a statuto speciale, che non sono abolite ad una definizione del Senato non nitida, con le sue funzioni e con i suoi rappresentanti, che vengono dalle Regioni.

 

L’intenzione è di rendere il percorso di governo più agile ed efficace. I fatti ci diranno chi avrà avuto ragione e comunque ci sarà la possibilità di cambiare di nuovo. Non dimentichiamo che il Paese ha bisogno di unità e di non spaccarsi di nuovo. Quello che è accaduto nelle Camere è andato oltre ogni decenza, con risse, linguaggi torbidi, aggressioni, trucchi. Roba di avanspettacolo. In quelle ore il Parlamento ha dato il peggiore spettacolo. Facciamo della campagna elettorale un'occasione di dialogo esigente e serio capace di raccontare agli italiani la forza civile della nostra Costituzione. Partiamo dai princìpi fondamentali, che tutti vogliamo difendere, e arriviamo alla riforma, senza scomuniche, senza espulsioni, senza cercare la rissa e l’offesa dell’altro.

 

Le parole di Civiltà cattolica

Il Paese non ha bisogno di un dialogo che diventi scontro, di parole che diventino insulti, di proposte che diventino guerra, di un risultato che si trasformi in dimissioni. Mi pare plausibile la posizione di Civiltà cattolica: «Davanti a questo testo rimangono inviolati i princìpi e i diritti fondamentali della prima parte della Costituzione; ad essere riformata è invece l’ingegneria costituzionale della seconda parte. Se si paragona il sistema al motore di una macchina, questa è il funzionamento tecnico di una democrazia, che attiene alla forma di governo, alle garanzie, ai controlli e ai rapporti tra livelli di governo. Si tratta di una parte tutt’altro che neutra, che però va considerata come l’ennesimo tentativo di sviluppo del dettato costituzionale nel tempo».

 

Il motore di una macchina  e il paragone con esso abbassa la temperatura e relativizza il dialogo, senza degenerazioni retoriche, senza le grida degli sconsiderati, senza paragoni improponibili, che servono ad alzare i muri di una politica violenta, ma cercando sempre ciò che unisce piuttosto che ciò che divide. Diceva Oscar Luigi Scalfaro in qualità di presidente dell’Associazione di difesa della Carta: «La Carta costituzionale non è intoccabile e lo dico nella mia responsabilità di presidente dell’Associazione di difesa della Carta. L’importante è che ogni modifica abbia da parte del Parlamento una approvazione che coinvolga largamente le forze dell'opposizione e che sia sempre e soprattutto a servizio e a utilità del popolo italiano».

 

Alla fine del 2015 il presidente Mattarella così esprimeva il suo pensiero su questo passaggio delicatissimo, parlando alla cerimonia di scambio degli auguri con le istituzioni e le forze politiche: «Osservo soltanto che il senso di incompiutezza  rischierebbe di produrre ulteriori incerteze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia all’interno verso la politica e all’esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli, che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere. (…) Qualunque riforma si riesca a realizzare, la democrazia assumerà le modalità concrete che gli attori le daranno, con il loro senso dello Stato, con l’etica della loro azione, con quanto di partecipazione dei cittadini riusciranno a promuovere».

 

Il 23 aprile scorso, cinquantasei giuristi (tra cui Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky, Lorenzo Carlassara, Ugo De Siervo) hanno pubblicato un documento di critica alla riforma costituzionale, ma affermano: «Non siamo tra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei  princìpi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo. Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto in una potenziale fonte di nuove disfunzioni e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione». È un riconoscimento importante, che sottolinea, in modo implicito, il problema del rapporto tra riforma della Costituzione e nuova legge elettorale, che avrebbe meritato una meditazione maggiore e scelte politiche più coraggiose e innovative. La legge elettorale ha grandi fragilità e deve essere valutata dalla Corte costituzionale.

 

Cambiare la legge elettorale è avvenuto troppe volte in questi anni, con esiti pasticciati. Basti pensare al Porcellum. Ci ricordiamo la scelta nel 2006 della Margherita e dei Ds di andare con liste separate al Senato e questo impedì al governo Prodi di avere una maggioranza plausibile al Senato. Questo creò le condizioni tecniche per la sua caduta, a cui contribuì il commercio dei voti e dei parlamentari. Molti professori di oggi, nei due campi, tutto questo se lo dovrebbero ricordare. Rimane il fatto che i costituenti lasciarono alla legge ordinaria la revisione della legge elettorale, a indicare una distinzione tra impianto costituzionale e legge elettorale, che pure qualche volta ha dato i suoi buoni frutti, come il Mattarellum.

 

Il mio è un "sì" secondo modestia, senza trionfalismi, che spera miglioramenti nel tempo, ma convinto che la forza della nostra Costituzione sia più grande delle nostre fragilità, delle nostre furbizia, dei nostri ricatti e della ricerca ossessiva del potere.

Sullo stesso argomento leggi anche:

Parliamo del Referendum costituzionale di Carlo Cefaloni;

Una riforma contro la Costituzione di Pietro Adami;

Nel segno delle grandi democrazie, di Stefano Ceccanti;

Referendum costituzionale: dubbi sul quesito, di Iole Mucciconi                                      

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