Referendum 17 aprile. La posizione di Legambiente

Una scadenza fissata troppo in fretta per penalizzare la partecipazione al voto, che può essere un primo passo per liberare il Paese dalla dipendenza delle fonti fossili e far crescere quelle rinnovabili. Gli interessi in gioco e le notizie da sfatare secondo Rossella Muroni, presidente nazionale Legambiente, intervista da cittanuova.it
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Il referendum del prossimo e imminente 17 aprile chiederà agli italiani di esprimere il proprio voto sulla parte di una legge (l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, variato dal decreto cosiddetto Sblocca Italia del dicembre 2015) che permette alle società che hanno ottenuto concessioni per estrarre gas o petrolio da piattaforme collocate entro 12 miglia dalla costa italiana, di rinnovare la concessione fino all’esaurimento del giacimento.

 

Il governo non ha ritenuto opportuno procedere abbinando il referendum alle elezioni amministrative previste a giugno per oltre 1300 comuni. I vertici del Partito democratico, che guida la coalizione, hanno invitato all’astensione, dato che l’esito del voto avrà effetto solo se si recherà alle urne il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto. Una strategia politica che rientra nelle opzioni possibili quando si tratta di questo tipo di consultazione, così come è avvenuto, in passato, con il referendum sulla procreazione assistita o quello sull’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alle aziende sotto i 15 dipendenti. Il quesito che sarà posto agli elettori è l’unico rimasto tra i sei proposti dalle nove Regioni, anche a guida Pd, che hanno chiesto il referendum (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise).

 

Come cittanuova.it diamo spazio in queste settimane alle ragioni del dibattito su una questione che merita di essere approfondita nella prospettiva della cura del bene comune. Cominciamo con Rossella Muroni, presidente nazionale di Legambiente.

 

Nel 2011 è stato raggiunto il quorum per il referendum sul nucleare e l'acqua pubblica probabilmente grazie alla paura del disastro in Giappone. A meno di catastrofi ambientali non auspicabili, stavolta la strada è in salita, perché la materia sembra troppo tecnica…

«Che il quorum nei referendum del 2011 sia stato raggiunto per l’effetto Fukushima è vero solo in parte. Allora ci fu anche una grande attenzione popolare a due temi apparentemente tecnici, come il nucleare e la privatizzazione dell’acqua, perché la gente capì che erano questioni rilevanti nella propria vita quotidiana. In questi quattro anni l’attenzione popolare verso i temi ambientali è cresciuta. Anche la COP 21 di Parigi, ad esempio, ha contribuito a trasformare l’emergenza climatica, un tema per addetti ai lavori fino a poco tempo fa, in un tema di interesse sociale diffuso.

 

«È in atto un cambiamento culturale profondo, con cui il governo ha evidentemente paura di misurarsi, visto che non solo ha impedito che il referendum sulle trivelle si tenesse insieme alle amministrative, facendoci spendere 360 milioni di euro in più, ma ha anche fissato la data il prima possibile per impedire che gli italiani fossero debitamente informati. Sì, certo, la strada è in salita, ci costringe a correre e il quorum non è facile da raggiungere. C’è poi da dire che, come spesso accade in questi casi, le grandi lobby che si sentono toccate nei propri interessi mettono in campo bugie e falsificazioni».

 

Cosa è in gioco con questo referendum?

«La questione può sembrare molto tecnica ma non lo è. Il referendum serve a evitare che le compagnie petrolifere che hanno oggi attività dentro le 12 miglia possano godere di diritti di cui nessun altro gode, quali la durata illimitata della concessione. Il governo, infatti, per bloccare alcuni quesiti proposti dalle Regioni, ha modificato le regole delle concessioni che saranno limitate a 30 anni per le estrazioni e a sei anni per le ricerche, senza possibilità di proroghe, e ha confermato il divieto di nuove concessioni entro le 12 miglia (limite che aveva dettato il ministro Prestigiacomo nel 2010). Nel contempo ha tolto ogni limite temporale alle concessioni in essere entro le 12 miglia, contraddicendo anche la direttiva europea.

 

«Il referendum interviene solo su quest’ultimo punto: se vincono i “sì” le concessioni già in essere entro le 12 miglia avranno lo stesso trattamento delle altre, per cui se hanno già chiesto le proroghe, possibili con la normativa precedente, avranno le proroghe, altrimenti si chiuderanno a scadenza naturale della concessione. Ma il significato di questo referendum è ben più ampio: si vuole dare un segnale forte di cambiamento delle politiche energetiche, per essere in linea con gli impegni presi a Parigi. Fermare le trivellazioni in mare vuol dire che questo Paese vuole essere libero dalle fonti fossili».

 

Esponenti del Pd emiliano prevedono un dramma sociale con la perdita del lavoro per migliaia di addetti in regione e il rischio che le attività continueranno oltre le 12 miglia da parte di altri soggetti meno scrupolosi o tecnologicamente avanzati, dai quali dovremmo importare le fonti fossili destinate a restare predominanti. Che dire davanti a tali obiezioni?

«Sono un esempio paradigmatico di quelle falsificazioni di cui parlavo prima. Innanzitutto il settore è già in crisi. Qualche giorno fa Il Sole 24 Ore pubblicava un articolo dedicato alle attività di estrazione del gas nel ravennate dal titolo emblematico: “A rischio il futuro dell’oil&gas. In sei mesi persi 900 posti di lavoro”. Ma il referendum non si è ancora tenuto. Il problema è che ci troviamo di fronte a giacimenti già ben sfruttati: la produzione di gas naturale entro le 12 miglia ha avuto il picco nel 1998, oggi è calata di oltre quattro volte. Nella produzione di petrolio il picco risale addirittura al 1988, e oggi è di oltre sei volte più basso.

 

«Inoltre le piattaforme in quest'area riguardano solo il 30 per cento di tutto il settore estrattivo e le riduzioni saranno scaglionate nel tempo tra concessioni già scadute che hanno richiesto una proroga e concessioni che scadranno d’ora in poi (le uniche a subire un eventuale effetto del referendum). Non credo sia un caso che la Fiom, il sindacato maggiormente coinvolto dalla eventuale crisi occupazionale, sia a fianco nostro nella battaglia per il "sì".

 

«Voglio anche aggiungere che non hanno neanche ragion d’essere le grida d’allarme sugli aumenti dei costi per i consumatori e sull’aumento delle importazioni; stiamo parlando di una quota di produzione a mare entro le 12 miglia inferiore all’un per cento rispetto al fabbisogno nazionale (0,95 per cento) per il petrolio e del tre per cento per il gas. Questi sono i dati del ministero dello Sviluppo economico».

 

A prescindere dalle trivelle, cosa ostacola lo sviluppo delle fonti rinnovabili in Italia? Quali ostacoli vanno rimossi e in che modo per essere efficaci?

«La politica energetica degli ultimi governi, con una coerenza degna di miglior sorte, ha messo in ginocchio il settore delle rinnovabili, che pure in 10 anni è passato dal 15,4 per cento dei consumi elettrici a oltre il 38 per cento, facendo crollare le nuove installazioni del 92 per cento. I governi Monti, Letta e Renzi sono intervenuti tagliando incentivi, anche in modo retroattivo, e complicando le procedure. Eppure proprio lo sviluppo e il successo delle rinnovabili ha permesso di ridurre il prezzo dell'energia elettrica, aumentando la concorrenza, e ha abbassato drasticamente il costo delle nuove installazioni.

 

«Si è voluto penalizzare un settore in espansione, senza che nessuno si sia mai preoccupato delle ricadute occupazionali, che consente di riequilibrare la bilancia energetica del Paese, riduce le importazioni, elimina centrali inquinanti e ci consente di rispondere agli impegni internazionali per il contrasto ai cambiamenti climatici. Con l’unico obiettivo di favorire la lobby del petrolio, finanziando le vetuste centrali a olio combustibile e favorendo nuove trivellazioni (quando i prezzi del petrolio rendevano conveniente anche estrarre piccole quantità qui da noi).

 

«Oggi per ripartire non c’è bisogno di nuovi pesanti incentivi, ma di semplificazioni nelle procedure, di certezze durevoli, che consentano piani industriali alle aziende, e di nuova regolamentazione che consenta l’autoproduzione per le comunità. Non servono risorse, serve solo la volontà politica e la lungimiranza di capire quale possa essere il futuro migliore per il Paese e non per le vecchie lobby del Novecento. Per una presentazione più approfondita di ostacoli e prospettive delle rinnovabili in Italia invito a consultare il dossier pubblicato sul nostro sito». 

 

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