Recuperi tra due mari

A Girifalco, comune sull’istmo al centro della Calabria. Due esempi di beni culturali che hanno ricevuto adeguata valorizzazione.

È bella e utile, fa da riferimento per tutta una comunità. Ed è uno dei monumenti simbolo di Girifalco, comune del Catanzarese esteso tra le pendici del monte Covello e l’altopiano che degrada verso il golfo di Squillace. Parlo della fontana barocca che orna, in pieno centro storico, la piazza su cui s’affaccia la chiesa di San Rocco, e che un delicato intervento di restauro ha riportato, dopo anni di degrado, alla bellezza primitiva.

Probabilmente non avrei fatto caso alla notizia se non avessi riconosciuto, in due dei tre restauratori – Rocco Greco e Camillo Giammarino – due vecchie conoscenze. Rocco poi, anche se da anni vive a Roma dove ha messo su famiglia, è originario proprio di questa cittadina calabrese. Quali emozioni gli avrà suscitato prendersi cura di un monumento a lui tanto familiare fin da bambino? Sono andato a chiederglielo a Girifalco, dove Rocco trascorre le ferie estive, pochi giorni dopo l’inaugurazione del restauro, avvenuta l’11 agosto nel corso di una festa popolare. E presso la fontana restituita all’affetto dalla gente del posto parliamo a lungo.

È un piccolo gioiello realizzato da scalpellini locali nel XVII secolo per volontà del primo sindaco di Girifalco, Carlo Pacino; la pianta è duplice, circolare all’interno e ottagonale all’esterno; nell’Ottocento alla vasca maggiore è stato sovrapposto un secondo bacino dal quale s’innalza il getto d’acqua che, ricadendo, alimenta alla base quattro vaschette di raccolta. Il restauro ha riportato alla luce le calde tonalità della pietra calcarea, consolidato l’intera struttura (in particolare la balaustrata e i gradini), rifatto le parti irreparabilmente degradate e il piano di calpestio, rimesso al loro posto i bocchettoni originali in bronzo da cui viene erogata l’acqua e infine ripristinato l’intero sistema idraulico.

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Non è consueto che un restauratore illustri alla cittadinanza il frutto del suo lavoro, ma da buon girifalcese Rocco non poteva esimersi di farlo, quella sera agostana, anche a nome dei suoi colleghi Camillo Giammarino e Lucia Di Paolo, una volta sollevato il telo verde che occultava la fontana, apparsa bella come nessuno ricordava di averla mai vista.

«Dopo i saluti e i ringraziamenti a quanti, a diverso titolo, avevano contribuito alla realizzazione del restauro – racconta l’amico – ho illustrato brevemente le varie fasi di un lavoro che per me è risultato una sfida. Conosci il detto nemo propheta in patria, per cui ho detto grazie anche a coloro che avevano riposto fiducia nella mia professionalità. Soprattutto però mi premeva sottolineare il significato che aveva per me un tale incarico. Sono partito da qui nel 1989 quando avevo 17 anni, per andare a studiare arte a Roma – e qui non posso non esser grato ai miei familiari: anche se poco convinti della scelta fatta, hanno creduto ai miei sogni di ragazzo e mi hanno lasciato andare, per cui questo restauro è anche un po’ il premio per i loro sacrifici. La professione che faccio è una passione, ancor prima di essere un lavoro. Ma stavolta l’opera affidatami aveva un valore aggiunto: apparteneva al luogo dove sono nato, a me come a ciascuno dei miei concittadini. Anche se dopo 30 anni qui non conoscevo quasi più nessuno, questo forte senso di appartenenza mi ha accompagnato lungo i 75 giorni necessari per completare un’opera espressione di valori comunitari, da tramandare anche alle generazioni future».

La nostra conversazione è sovrastata dalla musica squillante della Banda “Città di Girifalco” che sopraggiunge nella piazza Vittorio Emanuele II. Fondata nel lontano 1863, è uno dei complessi bandistici più importanti della Calabria. Mentre i circa cinquanta elementi sfilano, Rocco manda un saluto a due di loro, suoi parenti. Lasciata la fontana, tornata ad essere luogo di incontri, chiacchiere e selfie, mi lascio condurre alla scoperta di questa cittadina le cui origini si fanno risalire all’836, anno in cui i saraceni distrussero i due villaggi Toco e Carìa, di fondazione greca. Dalla vallata in cui risiedevano, gli abitanti si erano rifugiati come estrema difesa sopra una rupe dove, accanto ad un cenobio, si formò il primo nucleo urbano.

È il rione Pioppi Vecchi, oggi una sorta di Pompei medievale da quando il terremoto del marzo 1783, con epicentro proprio tra Girifalco e Borgia, finì di sconquassare il centro antico e la chiesa matrice dedicata alla Madonna delle Nevi, già gravemente danneggiati dal precedente sisma del 1626. All’epoca del catastrofico evento che devastò buona parte della Calabria, il feudo apparteneva ancora alla potente casata dei Caracciolo. E proprio la statua piuttosto malconcia del duca Fabrizio Caracciolo, un tempo chiamata in causa dalle mamme a guisa di orco per intimorire i bambini capricciosi, avevo notato al mio arrivo in città: vigila il portone d’ingresso del Palazzo Ducale, costruito dopo la VI crociata (XIII secolo).

Ci aggiriamo fra ruderi silenziosi, regno di qualche gatto inselvatichito. Il vento pettina la vegetazione spontanea da cui sprigiona un acuto aroma. Tra i rari abitanti del posto, una anziana c’invia un saluto gentile da una casupola confusa tra i muri sbrecciati. In anni recenti questo luogo di forte suggestione è stato oggetto di un recupero che ha interessato, tra l’altro, il Palazzo Spagnuolo e la torretta di avvistamento. Passato da rovina a risorsa, il rione si ripopola quando, nella stagione estiva, ospita concerti ed altri eventi culturali. Dopo la Fontana Pacino, ecco un altro risultato della attenzione che questa comunità ha verso le proprie radici storiche e culturali.

Perlustriamo il sito fino al ciglio della rupe che s’affaccia sulla vallata: laggiù in epoche remote passava l’antica via percorsa dai greci e poi dai romani; via che, attraversando il pianoro di Girifalco e l’istmo di Catanzaro, collegava lo Ionio al Tirreno, il golfo di Squillace a quello di Santa Eufemia. Siamo nel punto più stretto della Calabria; da questo luogo strategico, un tempo, le guarnigioni militari potevano agevolmente controllare i territori sottostanti. Qualora decidessimo di risalire le pendici del monte Covello, dai suoi 800 e più metri avremmo un colpo d’occhio magnifico su entrambi i mari. Ma è tardi: rimanderemo l’escursione ad una prossima volta.

 

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