Questa volta non mi ha sfiorato invano

Qualche volta i raggi di rapporti relazionali si affacciano nel cielo nuvoloso dell’indifferenza
sfiorato

Vi racconto una storia. Il mio vicino di casa (lo chiamerò artatamente Giuseppe, ma non è il suo vero nome) vive da solo. Lo vedo girare per la città sulla sua bicicletta, mai nessuno che gli si avvicini. Presumo che sia senza amici, ma i parenti li ha… Da 18 anni abitiamo vicini ma non ci siamo mai parlati. Quando lo incontro, lo saluto. Lui certe volte fa un cenno con la testa, altre volte sento un buongiorno a mezza voce, altre ancora silenzio, non risponde. Sembra un cane bastonato. Poi accade quello che non ti aspetti. La settimana scorsa sento squillare il citofono di casa. Esco in cortile. È lui, sono sorpreso e incuriosito. Ha dei fogli in mano, cosa vorrà mai? Lo accolgo, lo saluto e lo faccio entrare in casa. Si siede e non parla. È trasandato e con la barba lunga, i suoi abiti sono sporchi, è tutto sudato. Non lo dico per scherno o come insulto (absit iniuria verbis, sia lontana l’offesa dalle mie parole), lo dico perché la realtà è questa e non la si può edulcorare, altrimenti per renderla più accettabile la si travisa e non è più la verità vera ma un’altra cosa.

Si vede che è impacciato, forse intimorito, spaesato e con gli occhi assenti. Mi fa compassione, non di pietismo vacuo che non serve a niente, ma nel senso di “soffrire insieme” a lui. È nervoso e molto agitato. Le mani gli tremano e mi mette sotto gli occhi quello che ha in mano. È un ricorso per la nomina di un amministratore di sostegno inoltrato al Tribunale dalla sorella e notificato, tra gli altri, anche a lui come prescrive la legge. Evidentemente, anche se non ci siamo mai parlati, sa che sono avvocato e capisco che è venuto a chiedere spiegazioni. Nell’atto si descrive la sua vita e leggo che non è stata facile. Problemi di droga in gioventù e una “malattia mentale” molto seria e invalidante e tanto altro.

Comincia a parlare con frasi spezzate, mi racconta che ha perso il lavoro e da poco prende il reddito di cittadinanza, teme che con quello scritto la sorella, con la quale ha litigato, l’abbia denunciato. Gli dico che non è così, che invece con quell’atto si chiede al Giudice la nomina di una persona che possa affiancarlo e che anzi gli può essere utile, può far intervenire i servizi sociali e può farlo curare adeguatamente, visto che da solo non lo fa. Gli spiego con parole semplici quali sono i suoi diritti e di cosa si tratta. Cerco di rassicurarlo e di tranquillizzarlo. Ma non riesce a capire e allora glielo ripeto, con calma, piano piano e più volte gli dico le stesse cose.

Andando avanti nel colloquio, a poco a poco si calma e mi lascia intendere che ha capito, si è un po’ rasserenato e mi sembra che vada via più tranquillo. Avrà capito? Gli avrò spiegato bene? Mi pare di sì. Il giorno dopo mia moglie, che era in cortile, rientra in casa con un pacco, glielo ha dato Giuseppe, quasi schernendosi e poi scappando subito via, come un ladro… e alla sua domanda del perché, le ha risposto: «Suo marito lo sa». È una bottiglia di liquore, mi ha ringraziato così e rimango stupito, interdetto, non me lo aspettavo, che delicatezza… mi riprometto di ringraziarlo.

Nei giorni seguenti ho spesso pensato a lui. Povero cristo abbandonato a sé stesso. E come lui tante persone sole, “anime perse”, fantasmi invisibili che solo l’amore ci consente di vedere. Ho letto in questi giorni di un clochard trovato morto su una panchina della stazione della città. Vagava di stazione in stazione col suo pacco di povere cose sotto il braccio. Ora aspetta di fare l’ultimo viaggio nella sua terra di origine, la Sicilia, dove aveva dei parenti. Giuseppe tutti lo evitano e passano oltre, perché è brutto e sporco, puzzolente o forse pericoloso per la sua malattia? Ma quanto deve soffrire un uomo nella sua vita? Domanda senza risposta. E ho pensato che lui è come Gesù Cristo sulla croce: non deve essere stato un bello spettacolo, il “più bello tra i figli dell’uomo” (Salmi 44, 3) è irriconoscibile: sangue, sudore, lacrime e solitudine: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»… Ma io sono verme, non uomo… infamia degli uomini… mi scherniscono quelli che mi vedono… storcono le labbra, scuotono il capo… come acqua sono versato… il mio cuore è come cera, si fonde in mezzo alle mie viscere… (Salmi 21, 1-32) Proprio così… come Giuseppe.

E ieri sera lo vedo arrivare che torna a casa in bicicletta. Lo fermo, mi accorgo che ha bevuto, lo ringrazio per il regalo e gli dico che non doveva farlo. Lui mi risponde: «Lei è stato così gentile…» e mi fa un gesto di cortesia e di vicinanza che io percepisco essere un segno di affetto. Incredibile, lui lo fa a me e non viceversa? È lui che ha bisogno di amicizia e di sostegno e non io… mi ha lasciato senza parole… E si è allontanato chiudendosi in casa. Sono consapevole che la sua esistenza è dura, durissima, direi insopportabile, e chissà quanto durerà ancora. Ma quando è stato da me, al di là delle parole, ha percepito la mia “gentilezza” e in quella mezz’ora forse la sua vita gli sarà sembrata un po’ meno pesante.

Ecco, Giuseppe mi ha fatto ricordare una frase di Chiara Lubich: «Nessun’anima sfiori la vostra invano», dunque non “nessuna persona” o “nessuna mente “o “nessun cuore”, ma “nessuna anima”. L’anima di una persona è la sua parte più intima e nascosta e solo l’amore o il bene può accedervi senza fare danni… per comprendere, non giudicare e dare un po’ di sollievo. Ho pregato il Padreterno perché aiuti Giuseppe a sentirsi meno solo e perchè lenisca le sue sofferenze. E la sua anima questa volta non mi ha sfiorato invano.

(Esperienza raccolta da Paolo De Maina)

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