«Il proporzionale corretto può dare stabilità»

Per lo storico e politologo Paolo Pombeni un sistema proporzionale, adeguatamente corretto, potrebbe garantire la governabilità del Paese
referendum costituzionale

(Pubblichiamo la seconda parte dellintervista a Paolo Pombeni, storico e politologo, sul sistema elettorale più adatto in un sistema partitico frammentato come è l’attuale)

In linea teorica il ritorno al proporzionale sarebbe compatibile con altri strumenti per rendere possibile la governabilità?

I sistemi elettorali sono di loro natura flessibili e possono essere congegnati in maniera da evitare alcuni guai.

Innanzitutto un proporzionale con clausole di sbarramento adeguate (il 5% dei consensi) riduce la frammentazione e dunque stabilizza i parlamenti. In secondo luogo, se si introducono meccanismi che non stanno nella legge elettorale, ma le sono di contorno, si possono raggiungere buoni risultati. Per esempio se si fissa che nel caso di rottura dei patti elettorali di coalizione si deve tornare alle urne, si disincentivano rotture che sono manovrette o alzate d’ingegno di qualche personalità (con una norma del genere i governi Prodi non sarebbero caduti), altrettanto accade se si bloccano le possibilità di cambiare partito visto che nel proporzionale più che le persone si votano i partiti. Ancora: se si introduce la clausola della “sfiducia costruttiva”, cioè si stabilisce che un governo si può far cadere solo se chi raccoglie i voti per far saltare il governo è contestualmente in grado di proporne un altro, si evitano le “ammucchiate anti X”. Tanto per dirlo chiaramente, se destre e M5S trovano un accordo per far saltare il governo, contestualmente devono metterne in pista uno loro, il che sembra piuttosto difficile.

Dovendo rimettere mano ad una riforma condivisa, ci sono le condizioni per introdurre una sola Camera?
Personalmente ritengo un errore avere una sola Camera. Se il tema è, come dovrebbe essere, quello di avere la possibilità che “due occhi” con differenti prospettive esaminino le leggi di più rilevante portata, e che per le altre ci siano competenze differenziate a seconda dei modi di designazione dei parlamentari, il bicameralismo resta una opzione significativa. Ciò che non può reggere è l’impostazione attuale.

Quali sono, a suo giudizio, gli aspetti negativi di questa impostazione ?
Sono due. Per prima cosa l’idea che le due Camere siano espressione della stessa formazione delle divisioni politiche che esistono nel Paese al momento delle loro elezioni, che sono anche contestuali. Questo produce o un doppione inutile, o, se pasticciamo le modalità di selezione, un sistema conflittuale che complica l’iter legislativo. In seconda battuta l’impostazione che ci sia un sistema di doppia fiducia (e doppia sfiducia) al governo che non ha senso alcuno, perché il presupposto è che fiducia e sfiducia vengano da un soggetto che rappresenta “il Paese” e questo non può essere doppio. Dunque bisogna superare il bicameralismo paritario.

Pur restando anche il Senato, vede auspicabile un dimagrimento del numero complessivo dei parlamentari?

Il numero dei componenti di Camera e Senato è un problema che va risolto sulla base delle attribuzioni che si vogliono riservare loro.

Se la Camera deve raccogliere gli orientamenti politici del Paese non è possibile scendere sotto un numero di rappresentanti che sia idoneo a raccogliere uno spettro significativo di quegli orientamenti. Se il compito del Senato deve essere quello di essere un “secondo occhio” più tecnico e più lontano dalla lotta politica immediata, il numero dei suoi componenti si rapporterà agli ambiti che si ritiene importante investire di questo secondo delicato compito. Non si possono fare cifre assolute a vanvera: è solo demagogia.

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