Processi “siriani” in Germania

Nell’impossibilità di fare ricorso al Tribunale penale internazionale dell’Aia a causa dei veti in sede Onu, da qualche anno alcuni Paesi europei hanno recuperato, precisato e applicato anche per alcuni gravi crimini compiuti in Siria il principio di “giurisdizione universale” riconosciuto dallo Statuto di Roma.
(AP Photo/Martin Meissner)

Il 19 gennaio scorso si è aperto a Francoforte, in Germania, un processo contro Alaa Mussa, un siriano accusato di crimini contro l’umanità commessi in Siria. Prima di lui erano stati giudicati a Coblenza, con imputazioni analoghe, due funzionari dell’intelligence militare del regime siriano, arrestati nel 2019 e 2020 in Francia e Germania, dove si trovavano dopo aver lasciato in incognito la Siria ed aver ottenuto asilo per motivi umanitari nella repubblica tedesca.

Il primo ad essere giudicato è stato Eyad al Gharib: il 24 febbraio 2021 è stato riconosciuto colpevole di aver partecipato ad una trentina di casi di tortura, e condannato a 4 anni e mezzo di reclusione; il secondo è il suo capo, l’ex colonnello Anwar Raslan, condannato all’ergastolo il 13 gennaio 2022 per complicità in 4 mila casi di tortura e in almeno 27 omicidi accertati, oltre a stupri e violenze avvenuti sotto la sua direzione, fra il 2011 e il 2012, nel famigerato “Dipartimento 251” di Damasco, una prigione dei servizi segreti (mukhabarat) tristemente nota per i trattamenti disumani inflitti ai prigionieri.

La Corte di Coblenza lo ha giudicato colpevole dopo 108 udienze in cui sono stati ascoltati più di 80 testimoni: vittime di torture e rappresentanti di Ong costituitesi come parte civile. Il terzo processo, iniziato in questi giorni a Francoforte, è appunto quello contro Alaa Mussa, da 2 anni in carcere in Germania: un medico accusato di gravi sevizie e di 18 casi di tortura commessi in un ospedale di Homs, in Siria, tra il 2011 e il 2012.

Lynn Maalouf, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa, subito dopo la condanna di Raslan ha commentato: «Il verdetto di oggi è una vittoria storica che amplifica le voci di decine di migliaia di sopravvissuti a detenzioni illegali, torture e violenze sessuali, nonché le voci delle famiglie delle vittime morte nelle carceri e nei centri di detenzione siriani a seguito del trattamento delle forze di sicurezza siriane per oltre un decennio (…). Questo risultato non sarebbe arrivato senza coloro che hanno osato condividere le loro storie, gli attori della società civile siriana e le organizzazioni per i diritti umani, e le controversie che hanno perseguito ostinatamente giustizia, verità e riparazione nel corso degli anni (…). Gli stati di tutto il mondo devono seguire l’esempio della Germania e avviare procedimenti simili contro individui sospettati di aver commesso crimini ai sensi del diritto internazionale. Con i procedimenti penali interni in Siria inconcepibili, e nessun percorso per deferire i casi alla Corte penale internazionale, la giurisdizione universale è l’unico modo per ottenere giustizia».

Queste affermazioni della Maalouf fanno riferimento ad alcuni fatti e principi che spiegano in certo modo come sia stato possibile processare in Germania imputati per crimini commessi in un altro Paese da cittadini non tedeschi.

Un primo fatto che ha consentito i procedimenti penali è senza dubbio la presenza in Germania di un grande numero di rifugiati e fra essi ci sono naturalmente anche sopravvissuti alle carceri siriane. Per dirne una: il colonnello Raslan è stato arrestato su segnalazione di un rifugiato siriano in Germania da lui torturato in Siria, che ha riconosciuto Raslan per strada, lo ha pedinato per scoprire il suo rifugio e l’ha poi denunciato alla giustizia.

I tribunali tedeschi si avvalgono in particolar modo del principio di “giurisdizione universale”, secondo cui crimini particolarmente gravi come genocidio, tortura, crimini di guerra e contro l’umanità possono essere giudicati indipendentemente dal luogo dove sono stati compiuti, purchè l’accusato sia presente e vi siano prove e testimonianze certe.

Questa prassi giuridica risponde da un lato all’impossibilità di deferire i crimini contro l’umanità alla Corte penale internazionale dell’Aia a causa dei veti nell’ambito del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; dall’altro, la giurisdizione universale per questi crimini è riconosciuta dallo Statuto di Roma, l’accordo internazionale che ha istituito la Corte dell’Aia. Lo Statuto di Roma, in vigore dal 2002, è stato firmato da 139 stati e ratificato da 123.

L’utilizzo dell’istituto della giurisdizione universale (ipotizzato fin dal XVII secolo) per perseguire crimini molto gravi è stato recuperato e sviluppato soprattutto dopo il 2015 (pur con alcuni importanti precedenti fin dalla metà del secolo scorso) da alcuni Stati europei, in particolare Germania, Francia, Olanda, Norvegia, Belgio e Svezia, superando numerose critiche e individuando sempre meglio un principio giuridico internazionalmente riconosciuto al fine di perseguire i colpevoli e dare pubblico riconoscimento alle vittime innocenti.

Leggi giuste e universalmente condivise, unite ad una adeguata giustizia procedurale, sono già un presidio di civiltà di fronte all’arbitrio di poteri che pretendono il dominio sulla vita delle persone.

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