Precarietà e germogli di speranza

La Chiesa italiana e il percorso di discernimento davanti allo scandalo dell’esclusione dal lavoro. “Non bastano più le parole”
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Il lavoro che manca mina, alle fondamenta, la dignità di troppe persone in Italia e chiama la Chiesa a quel giudizio esigente richiesto da papa Francesco nell’esortazione Evangelii Gaudium quando afferma di preferire «una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze». Da tale prospettiva diventa comprensibile l’irrituale messaggio del papa davanti alla crisi del polo siderurgico di Piombino in Toscana. Il carico umano del declino industriale di un altoforno attivo fin dal 1869 si è palesato ad un commosso papa Francesco attraverso il video autoprodotto dai lavoratori che vivono, da tempo, un lungo periodo di incertezza.

L’invito ai diversi responsabili da parte del vescovo di Roma a «compiere ogni sforzo di creatività e di generosità per riaccendere la speranza nei cuori di questi nostri fratelli e di tutti i disoccupati» si collega all’invocazione rivolta direttamente a Gesù, davanti ad una selva di caschetti da minatore, durante la visita in Sardegna dell’ottobre del 2013: «a Te non mancò il lavoro, dacci lavoro e insegnaci a lottare per il lavoro e benedici tutti noi!». 

A partire da questa consapevolezza la Commissione della Pastorale del lavoro della Cei, guidata dal vescovo di Campobasso, Giancarlo Bregantini, ha avviato un percorso di “discernimento spirituale e culturale” che darà i suoi frutti durante il convegno previsto per fine ottobre a Roma sul tema “Nella precarietà, la speranza” con particolare attenzione alle famiglie e ai giovani. Come si afferma nel documento preparatorio «i giovani soffrono tremendamente quando, consapevoli del loro talento, con alle spalle tanto studio e tanti corsi-stage, a 30 anni, si sentono rivolgere quella domanda, domanda d’inferno: “Ma tu, che fai nella vita?”. Non gli si chiede: “Chi sei? Come stai? Cosa c’è nel tuo cuore?”. No! Ma solo: “Tu … che fai?”. Ed il giovane, arrossisce, abbassa gli occhi, si vede già “scartato!”. Non possiamo permettere più che i nostri giovani subiscano ancora tutta questa umiliazione!».

Il compito della Chiesa deve perciò «mantenere viva, oltre alla speranza, la difesa della loro dignità di figli» e ancora più esplicitamente «smascherare i sistemi di corruzione che impediscono l’occupazione». Di fronte a questo «segno dei tempi che non avremmo mai voluto attraversare» perché esprime un «dramma epocale che ci rende tutti segnati dall’irruzione dell’ingiustizia sociale più cruda e virulenta che fende il Paese, non bastano più le parole». La sfida messa a nudo nel paragrafo 53 dell’esortazione papale nasce dalla consapevolezza che «non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione (dal lavoro, ndr) resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati”, ma rifiutati, “avanzi!”». “Esuberi” possiamo aggiungere per trovare un termine di tecnica aziendale. 

Il criterio proposto, in questo cammino della Chiesa in Italia, è quello della ricerca dei “germogli di speranza” che si possono cogliere da un nuovo annuncio del Vangelo del lavoro. Si tratta dunque di capire «come contrastare l’idolo del denaro» ascoltando il grido dei poveri. La precarietà vissuta nelle comunità e nelle famiglie si percepisce, pertanto, come l’occasione di quella conversione profonda che permette di offrire il proprio contributo «al dibattito in corso nel settore politico riguardo al lavoro».

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