Povertà e lavoro, intervista a Gianni Bottalico

A colloquio con Gianni Bottalico, tra i promotori dell’Alleanza nazionale contro la povertà in Italia. Dalla proposta del Reddito di inclusione sociale al varo del Reddito di cittadinanza. Quali vie seguire per una politica attiva del lavoro?
Lavoro. Foto Fabio Sasso/LaPresse cronaca 31/10/2020 Napoli,la fabbrica della Whirpool di Ponticelli oggi chiude definitivamente e si riunisce in assemblea permanente occupando la fabbrica assieme ai cittadini e politiciNella foto gli operai davanti alla fabbrica
Gianni Bottalico

In materia di lotta alla povertà, questione strettamente legata al dibattito sulla riforma o meglio abolizione del Reddito di Cittadinanza (RdC) annunciato dal governo Meloni, abbiamo sentito il parere di Gianni Bottalico, già presidente nazionale delle Acli e che, in tale veste, ha promosso la costituzione tra le associazioni di diversa estrazione di una vasta Alleanza contro la povertà in Italia con l’obiettivo di rispondere alla crescita dell’area della povertà assoluta tra la popolazione italiana. Un punto di vista significativo per capire l’evoluzione del confronto e dibattito tra società e politica.

Da presidente delle Acli lei è stato il promotore, assieme alla Caritas, nel 2013 dell’iniziativa per introdurre una misura adeguata per combattere la povertà assoluta in Italia. Come è stato il rapporto con la classe politica?
La misura contro la povertà, proposta dall’Alleanza Italiana Contro la Povertà era il Reis, Reddito di Inclusione Sociale.  Devo purtroppo ammettere che, a parte significative eccezioni, all’epoca non si percepiva una adeguata attenzione al fenomeno della povertà, almeno fino alla fine del 2016. Dopo, in seguito ad alcuni eventi internazionali come la Brexit e il risultato imprevisto delle elezioni americane del 2016, qualcosa iniziò a cambiare al punto che il governo Gentiloni riuscì ad affrontare il problema in modo più coordinato.

Esiste una visione culturale prevalente in Italia nei confronti del problema della povertà?
Non credo si possa parlare di una cultura prevalente sulla povertà: il dibattito si articola sempre attorno ai due fuochi dell’assistenzialismo fine a se stesso da una parte e del darwinismo sociale liberista dall’altro. Quello che purtroppo sembra piuttosto raro è un approccio che punti su aiuti finalizzati a rendere chi è in difficoltà di nuovo artefice del proprio destino, attraverso la formazione e il reinserimento nel mondo del lavoro, quando possibile, e comunque al reinserimento nelle varie reti sociali, come mira a fare il progetto del Reis. Non trascurando nel contempo l’aspetto preventivo. Alla società, infatti, conviene molto più intervenire prima, per limitare la caduta nella povertà di ampi segmenti del ceto medio-basso piuttosto che agire quando ormai la situazione di persone e famiglie, dei minori, risulta compromessa e con incerte possibilità di uscita dalla condizione di povertà.

Come ha vissuto e percepito l’introduzione del cosiddetto RdC?
A fronte di una oggettiva necessità di intervenire, si è trattato di una misura al tempo condizionata anche da motivazioni elettoralistiche. Comunque meglio qualcosa di niente, in tal modo si è potuto testare gli effetti del reddito di cittadinanza. Se pensiamo a quanto sono costate e ci costano i sostegni a quelle che con un eufemismo vengono chiamate missioni militari all’estero, non credo l’aspetto da sottolineare sul reddito di cittadinanza sia quello dei suoi costi, perché il welfare, quando è ben calibrato, costituisce un investimento per lo sviluppo, bensì quello della sua efficacia, che, a mio parere è stata molto frenata dal fenomeno dei salari troppo bassi,che ha disincentivato, perché spesso non conveniente, la scelta di un lavoro da parte dei beneficiari di tale misura.

Cosa ostacola strutturalmente l’approdo ad un’occupazione stabile e degna in Italia?
La domanda richiederebbe una risposta molto complessa perché è il sistema economico attuale, mutuato dall’ordoliberismo e dal mercantilismo tedesco che richiede come condizione necessaria per funzionare una politica salariale improntata alla moderazione, ovvero i salari bassi per i lavoratori meno dotati di potere contrattuale.

Quali fattori sono prevalenti in tale contesto?
Se ne possono evidenziare alcuni: le disuguaglianze endemiche e l’inceppamento dell’ascensore sociale, l’atteggiamento spesso non amichevole dello stato e delle pubbliche amministrazioni verso i giovani che vogliono intraprendere un lavoro autonomo, il fatto che non si agisce, né in ambito privato né in quello pubblico, per creare le condizioni per remunerare adeguatamente i lavori più richiesti che così rimangono scoperti.

E ora cosa pensa delle scelte del governo Meloni?
Innanzitutto che è il primo governo di questo secolo a poter godere di una eredità unica lasciatagli dal governo precedente: prestigio internazionale riguadagnato, solidità dei conti pubblici, economia meno colpita dalle crisi, rispetto agli altri Paesi europei. L’impronta della nuova maggioranza si vede poco (e per lo più negativamente), se non sui temi più ideologici. Le politiche economiche ed energetiche sono quelle di Draghi, che costituiscono una realistica mediazione fra l’interesse nazionale, ed europeo (franco-tedesco) e le cose che stanno a cuore agli Stati Uniti.

Il governo Meloni, al di là della lontananza ideologica, andrà giudicato dai fatti. Per quel che si è visto sinora, è un governo che perde colpi quando insegue temi identitari e invece un governo che gode di una rispettabilità in Europa per meriti che è ancora troppo presto stabilire se siano propri.

Quale tipo di riforme considera necessarie per rispondere al problema dell’impoverimento di progressive fasce di popolazione con la crisi energetica e l’inflazione?
Credo che di fronte a processi così grandi come la progressiva sostituzione della classe media con schiere di poveri, i costi sociali delle transizioni energetica e digitale, l’instabilità del sistema finanziario internazionale e la fragilità delle catene di rifornimento, che rinfocolano l’inflazione, non si possa rispondere con provvedimenti spiccioli. Occorre decidere anzitutto per quale prospettiva agire.

Quali sono le prospettive da seguire a suo parere?
Ne vedo due fondamentalmente. Da una parte accompagnare i processi, sussidiare, lenire andando verso l’ignoto perché non si sa in che misura un sistema democratico senza ceti intermedi possa funzionare oppure scegliere di rappresentare le ragioni e gli interessi delle moltitudini, delle popolazioni e dei territori. Se si sceglie questa seconda prospettiva allora credo che si manifesti la necessità di coniugare le transazioni ecologica e digitale con la sostenibilità sociale.

In che modo si deve agire?
Prima di tutto dobbiamo rivedere un modello basato esclusivamente su piani pluri-decennali e definito prevalentemente in ambito accademico e a livelli molto alti di potere, per integrarlo con le osservazioni e le proposte che arrivano dall’esperienza e dai territori e tenere aperti questi progetti all’imprevedibilità e alla novità della Storia.

Può fare degli esempi?
Ne faccio uno. Non possiamo procedere ingranando la sesta su un modello di transizione ecologica basato solo sulle rinnovabili, e prevedere una decrescita economica (che sta causando un drastico abbassamento del tenore di vita delle classi lavoratrici) che si abbassi al livello dell’energia disponibile. Già ora bisogna integrare le rinnovabili con fonti di energia pulite come l’idrogeno. E di qui al 2030, o al 2050, non sappiamo come sarà il mondo allora e tante nuove scoperte scientifiche possono rivoluzionare l’approccio al problema energetico, aprendo possibilità ora inimmaginabili sul piano pratico ma già contemplati nei modelli teorici. Dunque, al declino del ceto medio e delle fasce più deboli credo si possa rispondere guardando a una prospettiva aperta e non ideologica, sul futuro, avendo come obiettivo la società dei molti e non dei pochi, e la centralità dell’uomo rispetto a tutti i grandi programmi e strumenti di cambiamento.

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