Il popolo degli invisibili

C’è un esercito di vinti e di emarginati che facilmente possono passare dall’accattonaggio alla microcriminalità. Le parole del vescovo di Avellino, Arturo Aiello, dopo l’attentato contro il portone del vescovado. La guerra tra poveri

Avellino è una città di 54.000 abitanti, capoluogo di provincia dell’Irpinia, colpita dal tristemente noto sisma del 1980, dopo il quale ha saputo rialzarsi e darsi una serie di infrastrutture. In questo modo, accanto all’agricoltura, che fino ad allora era stata la principale, se non l’unica, fonte di guadagno della popolazione (e che resta fondamentale per alcune colture, come quella della nocciola), ha avuto un grande sviluppo l’industria, grazie soprattutto ai due nuclei produttivi installati ad est e ad ovest della città, nei quali trovano spazio molte imprese. Nel tessuto economico della città e della provincia significativo è anche l’apporto del terziario. Il reddito pro capite della provincia risulta il più alto della Campania.

La presenza dei cristiani risale al V secolo, come attestano alcuni documenti riguardanti il Vescovo Timoteo. La Diocesi di Avellino, guidata da circa due anni da monsignor Arturo Aiello, comprende solo alcune città della provincia, dove sono presenti anche le diocesi di Ariano Irpino-Lacedonia e Conza-Nusco-Bisaccia. Fulcro della fede e della devozione, non solo locale, è la famosa Abbazia di Montevergine, fondata intorno al 1100 da San Guglielmo di Vercelli.

La squadra di calcio della città, i famosi Lupi, vanta ben dieci stagioni in serie A, ma milita oggi nella serie C. Molto seguito è anche il basket, la cui squadra cittadina, dopo essere stata per molti anni nella massima serie, attualmente è iscritta al campionato di serie B.

Potrebbe sembrare un’isola felice nel difficile panorama del Meridione d’Italia, ma anche qui si trovano gli stessi problemi: disoccupazione; infrastrutture, servizi, welfare e trasporti insufficienti; spopolamento, soprattutto da parte dei giovani; mancata integrazione con i numerosi stranieri presenti, ecc.

In questo contesto è maturato l’episodio che venerdì 23 agosto 2019 ha scosso la città ed è rimbalzato agli onori della cronaca nazionale. Un pregiudicato italiano di mezza età ha preparato e fatto esplodere un ordigno artigianale davanti al portone del Vescovado, per protestare contro un asserito allontanamento dal “Centro di Ascolto Zaccheo”, gestito dalla Caritas diocesana, in seguito alla sua ennesima richiesta di “soldi, lavoro e sostentamento”.

L’esplosione, preceduta da una protesta urlata davanti all’ingresso del Vescovado, ha attirato l’attenzione di un luogotenente della Polizia Municipale e di un passante che, cercando di domare le fiamme, è stato ferito al volto ed è ricoverato all’ospedale di Avellino. Dietro il portone, per fortuna rimasto chiuso, il direttore della Caritas diocesana, Carlo Mele, che, in quanto garante dei diritti del detenuto nel carcere di Bellizzi, conosce bene l’autore del gesto disperato.

Proprio di disperazione di tratta, infatti, come spiega il vescovo del capoluogo irpino, Arturo Aiello, in un messaggio rivolto proprio all’attentatore: «Il gesto dell’incauto artificiere è isolato, non rientra in alcuna trama eversiva e va letto come “urlo” di un popolo di “invisibili” che abita la città e i paesi della nostra provincia elemosinando pane, lavoro e, forse, attenzione come i gatti randagi. Sono invisibili perché non considerati, esclusi o autoemarginati, vaganti come ombre e cani sciolti, senza fissa dimora, spesso sul limite sempre incerto della follia o di un disturbato senso della realtà. Chi fa caso a questa folle di ombre vaganti? Devo dare atto alle parrocchie di svolgere un ruolo di accoglienza, di ascolto, di integrazione, di “asilo politico”. Nel Medio Evo le chiese e i conventi, per un riconosciuto diritto di extraterritorialità, erano rifugio di perseguitati politici, a volte di delinquenti, di ricercati o semplicemente di uomini e donne che intendevano uscire dal consesso civile nascondendo volti e storie sotto sai e soggoli. Oggi avviene lo stesso per quanti, a vario modo emarginati, cercano un luogo umano e lo trovano, purtroppo, solo nelle chiese che fanno incetta di folli, di tipi strani, di uomini e donne che vivono alla giornata di accattonaggio o di carità. È l’esercito “dei vinti” che facilmente dalla marginalità possono passare alla microcriminalità. Non vestono giacca e cravatta, non provengono da profumerie e centri estetici, mancano delle norme di buona creanza e a volte, o spesso, non sanno neppure dire grazie a chi presta loro attenzione ed aiuto».

Il presule, che stava per uscire proprio da quel portone, parla di guerra tra poveri: «In un momento di disperazione non si morde qualsiasi mano, ma quella che tenta di offrirti un pane, non si usa violenza con un estraneo, ma con una persona domestica, non si brucia un qualsiasi portone, ma quello che tante volte si è aperto per accoglierti».

Pur riconoscendo la gravità del gesto, il vescovo perdona l’attentatore e lo invita a tornare con altro spirito nelle strutture diocesane: «A te, artificiere improvvisato, a nome della Chiesa che indegnamente rappresento, rivolgo il mio pensiero, non ti tolgo il passaporto per la mensa o il dormitorio, assicuro che non sei entrato nella lista nera (esiste solo per i benpensanti!). Augurandoti che i sacerdoti della legalità ti riconoscano le attenuanti della disperazione o di corti circuiti che tolgono ai gesti la piena responsabilità, ti assicuro che troverai ancora aperto il portone dove c’è un piatto caldo e l’accoglienza che sempre, come diritto e dovere, dobbiamo riconoscerci come esseri umani».

Una vicenda molto amara che invita tutti noi a riflettere sulle realtà nelle quali viviamo e a guardarci intorno per scoprire le mille miserie che ci circondano.

 

 

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