Una politica contro le armi atomiche

Quale soluzione per la crisi coreana? Quanto siamo vicini allo scenario apocalittico? Intervista a Alyn Ware, coordinatore della rete internazionale dei parlamentari a favore dell’abolizione delle armi nucleari  
GIUSEPPE GIGLIA - ANSA - KRZ

Come è evidente a tutti, papa Francesco cerca di svegliare dal torpore l’opinione pubblica di fronte al pericolo reale della guerra atomica. A gennaio, sabato 20, alcune associazioni hanno promoso una marcia verso le basi statunitensi di Ghedi  nel Bresciano  per denunciare la presenza di 70 bombe nucleari sul territorio italiano. Durante la manifestazione è sttao letto l’intervento di Cinzia  Guaita, del comitato riconversione della Rwm che fabbrica bombe in Sardegna esportate in Arabia Saudita ma ha la sede legale proprio a Ghedi. Circa 200 parlamentari del nostro Paese, infinem si sono impegnati a far aderire l’Italia al trattato di proibizione delle armi nucleari. Ma la strada è decisamente in salita.

Alyn Ware A margine del simposio convocato, nel novembre 2017 in Vaticano a sostegno della messa al bando delle armi nucleari, abbiamo incontrato il neozelandese Alyn Ware, coordinatore della rete internazionale del Pnnd (Parlamentarians for Nuclear Non Proliferation and Disarmament) che raccoglie oltre 700 parlamentari di 75 Paesi impegnati per il disarmo nucleare. Il disinvestimento pubblico nelle società coinvolte nella produzione delle armi nucleari costituisce uno degli obiettivi di questa azione di pressione efficace all’interno dei parlamenti nazionali. Si tratta di un percorso molto difficile che deve fare i conti con gruppi di interessi potentissimi, se solo si mettono in fila le grandi corporation interessate ad attirare massicci investimenti di lunga durata su tali sistemi d’arma. Certe volte, però, si registra un successo come è avvenuto con il fondo sovrano controllato dal governo norvegese.

L’approvazione del trattato per la messa al bando delle armi nucleari, avvenuta il 7 luglio 2017 con il voto favorevole di 122 Nazioni rappresentate in sede Onu, è solo un primo passo significativo per una presa di coscienza collettiva che deve interessare in primo luogo la società civile di quei Paesi, produttori detentori delle armi nucleari, che non hanno partecipato alla conferenza dell’Onu e si rifiutano anche solo di prendere in esame l’abbandono delle politiche di riarmo.

Resta da capire il reale impegno dei politici che hanno aderito alla campagna a favore della ratifica del trattato di proibizione delle armi nucleari pur appartenendo alla maggioranza del governo Gentiloni che non solo si è detto contrario al trattato ma lo ha definito inopportuno e controproducente. Abbiamo chiesto in questo senso il parere di Alyn Ware, parlamentare da sempre in prima fila su questo fronte.

Come può, a vostro parere, un Paese come l’Italia, che appartiene alla Nato, ad aderire al trattato di proibizione delle armi nucleari?

Per firmare il trattato del 7 luglio, occorre rigettare la dottrina nucleare che è parte stessa dello Strategic Concept della Nato enunciato nell’articolo 17 dell’Alleanza atlantica dove si afferma che «la deterrenza, basata su un’adeguata combinazione di capacità nucleari e convenzionali, rimane un elemento centrale della nostra strategia complessiva. Finché esistono armi nucleari, la Nato rimarrà un’alleanza nucleare».

Per fare un esempio concreto, basti pensare a quanto avvenuto con il patto di sicurezza dell’Anzus stipulato da Australia, New Zealand Stati Uniti in vigore dal 1952. Quando la Nuova Zelanda ha vietato le armi nucleari  rigettando la teoria della deterrenza nucleare, gli Usa hanno Stati Uniti hanno annunciato che il trattato, pur se molto veno vincolante di quello della Nato, non era più utilizzabile.

Nel Trattato approvato all’Onu il 7 luglio non sono ammesse riserve, essendo state rigettate le proposte olandesi in tal senso. Qualsiasi Paese della Nato che firma tale trattato dovrebbe rinunciare al principio della deterrenza nucleare, uscendo dalla Nato stessa, a meno che non muti la linea strategica della stessa alleanza atlantica. Prospettiva del tutto improbabile alla data odierna.

Come rispondete a chi osserva che logicamente l’unica strada aperta per la Corea del Nord per non farsi invadere resta quella della deterrenza nucleare per non fare la fine di Libia e Iraq?

La Corea del Nord ha annunciato di ritirarsi dal Trattato di non proliferazione nucleare e quindi di sviluppare le armi atomiche come risposta all’invasione americana dell’Iraq. Dopo, cioè, che le armi di distruzione di massa irachene sono state distrutte dall’Onu. Gli Stati Uniti hanno inserito la Corea del Nord, l’Iraq e la Libia nell’elenco degli “Stati canaglia” interessati alla strategia del cambio di regime. Quindi, la decisione della Corea del Nord di stabilire una forza deterrente è stata sostenuta come necessaria per proteggere il loro Paese da un simile destino. Per convincere Pyongyang a rinunciare al suo deterrente nucleare, sarà necessario garantire loro che non saranno invasi e soprattutto che non saranno attaccati con armi nucleari. La proposta che ho personalmente avanzato per “una  zona senza armi nucleari nell’Asia nordorientale” offre tali garanzie. Ne ho scritto in un articolo intitolato “Si può domare Godzilla?” dove spiego che tutte le parti in gioco si devono  impegnare a non dispiegare e utilizzare le armi nucleari. Il Giappone,la Corea del Sud,la Cina,la Cortea del Nord, la Russia, e gli Stati Uniti.

A suo parere, cosa ha impedito finora l’apocalisse atomica? 

La pressione e la mobilitazione della società civile assieme a molta, molta fortuna. Ci sono state almeno 15 occasioni in cui siamo arrivati a pochi minuti da uno scontro nucleare (per errore o errore di calcolo). Siamo stati fortunati, finora, a non essere coinvolti in una catastrofe così devastante che è difficile anche solo poter  immaginare.

 

 

 

 

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