Poesia su due ruote

L’avventura umana e letteraria di Giovanni Zilioli, indagatore del mistero delle cose.

Dalla pianura bagnata dal Po alle altissime innevate catene montuose del Tibet c’è una bella differenza. Ma raggiungere a pedali altitudini sui 4-5000 metri – come da Lhasa a Kathmandu, in territorio nepalese – non è da tutti. Eppure Giovanni Zilioli, ex insegnante di filosofia e letteratura, poeta e scrittore originario di Fiorenzuola d’Arda, nel Piacentino, non è nuovo ad imprese del genere: da solo o in compagnia di amici, nel corso degli anni ha già macinato chilometri in bicicletta, dalla Patagonia al Canada, agli Usa, alla Lapponia, alla Russia.

Ad attirarlo non è solo il contatto con una natura di vertiginosa bellezza, ma la possibilità di conoscere popoli diversi, verso i quali ha un atteggiamento di rispetto, di attenzione che lo fa capace di accogliere ciò da essi può imparare. «Tutti i popoli hanno una propria dignità e vanno accettati come sono, con le loro tradizioni, senza mai giudicarli: solo così è possibile capirli (non in senso intellettuale, ma vitale) nei loro valori o anche disvalori, giacché luce e tenebra coesistono dappertutto. Per me è irritante quando vedo andare qualcuno all’estero mantenendo le proprie abitudini riguardo al mangiare o al vestire… Cerca invece di entrare nel modo di essere di quel dato Paese – mi verrebbe da dirgli – e comincerai a capire perché lì sono fatti in un certo modo: una volta rientrato in te stesso e a casa tua, vedrai molto meglio limiti e ricchezze della società che hai lasciato e della tua. E ti parranno assurdi tanti pregiudizi da cui nascono certe intolleranze dei nostri giorni».

A chi legge certi bellissimi diari di viaggio corredati da sue foto risulta evidente quale sia stata la spinta a utilizzare le due ruote come mezzo per questa conoscenza: in effetti la bici è un veicolo che facilita la riflessione, la contemplazione. Il viaggio in zone del nostro pianeta preferibilmente selvagge ed impervie assume dunque, per Zilioli, le caratteristiche di un vero e proprio itinerario spirituale. Questa attitudine contemplativa si coglie soprattutto nei brani poetici inclusi in questi diari, quasi pause in cui l’autore rientra in se stesso per valutare e custodire ciò che va scoprendo.

«Sono il mio tentativo di approfondire quanto già in parte spiegato, ma che lì viene come depurato, essenzializzato ed espresso in forma lirica. Lì io faccio i conti con me stesso e con l’esperienza che vado facendo. Sono momenti simili a come quando ci si apparta per pregare. Per me la poesia è molto vicina alla preghiera; i salmi e il Padre Nostro li considero altrettanti canti».

Non si comprende, infatti, la sua poesia prescindendo dal Giovanni credente. E tiene a dire: credente nel Cristo risorto: «La risurrezione di Gesù – l’evento che differenzia il cristianesimo dalle altre religioni – è per me motivo di speranza, ma anche una sfida, una provocazione per la mia razionalità. Lo era anche per alcune grandi anime che ho conosciuto – penso ad un padre Turoldo –, uomini per i quali la fede costituiva un tormento, una conquista quotidiana».

Torniamo ai viaggi, quelli estremi che Giovanni predilige: probabilmente perché, insieme ai sacrifici enormi che essi richiedono, evidenziano anche, in chi li fa, risorse inaspettate: condizione ottimale per conoscersi più a fondo. «A me sono serviti a rendermi conto che mi basta molto poco per essere in armonia con il resto del mondo. In Tibet e in Nepal, dove sono tornato anche ultimamente, mi sono imbattuto in una umanità semplice, che vive sobriamente e senza chiedersi troppi perché. E questa essenzialità, difficile purtroppo da recuperare qui da noi (per cui ci sto male!), ha lasciato un segno indelebile anche nei miei compagni di viaggio».

Nata da questa esperienza, mi viene in mente una sua poesia intitolata Salutando uno jak:

«Bruca mansueto/sui pascoli radi/appena al di sotto del cielo./Pesante, ingobbito,/guarda la terra/con la saggia indifferenza/di chi tutto ha veduto/di chi ha molto sofferto./Lento, guardingo nei passi/sembra calpesti le rocce/con estrema attenzione,/quasi temesse ferirle./Paziente, porta fin sopra le nevi/il suo pelo di pietra/le sue corna di marmo./Osserva con occhio languido/e attento, quasi volesse/non farsi scoprire./Lascia che il tempo disgreghi/la superbia dei giorni,/lui composto e sapiente,/il pensieroso signore/di questi altopiani/adatti solo ai più forti,/a coloro che sanno/l’impermanente e il finale».

Ma anche quando trascorre il più dell’anno nella sua casa di Fiorenzuola – un rustico antico mulino –, una sana inquietudine pungola il mio amico: «Quotidianamente, fin da quando mi sveglio, ho bisogno di forti stimoli di ricerca. Le cose banali e ripetitive che fanno tutti non riesco a farle solo perché ne ho presa l’abitudine: devo trovarci un senso, se no cado in depressione, mi arrabbio (infatti mi si rimprovera di essere sempre inquieto, mai soddisfatto…). E questo perché da quando sono uscito dalla pancia di mia madre mi sento in viaggio verso un altro mondo, per arrivare al quale vorrei quasi bruciare le tappe: non perché non mi piaccia questa vita, anzi! Però mi aspetto dell’altro, provo una nostalgia infinita per attingere quel mistero. Questa inquietudine esistenziale, questo non saper aspettare a differenza delle persone sagge o dei santi, costituisce – lo riconosco – uno dei difetti che più mi pesano».

Per quanto misterioso e fragile sia il linguaggio delle parole lo scrittore e poeta che è Zilioli continua ad affidare ad esse ciò che ha di più prezioso da esprimere. «Scrivere è il mio modo di essere, di vivere, di trasformare il mio tempo in realtà (per altri può essere il lavoro, la famiglia, il potere, il denaro, il successo…). La parola per me è un mezzo per cercare di calarmi nel mistero delle cose, per riportare a galla brandelli di verità da rendere comprensibili a me anzitutto, ma anche agli altri: perché l’arte è sempre comunicazione, altrimenti non è».

Posso confermarlo: sia le poesie già pubblicate, sia le più recenti con le quali l’amico accompagna i suoi messaggi email, sono sempre chiare, dirette, mai involute… Una concretezza che certamente ha a che fare con le sue origini contadine e povere, delle quali va orgoglioso. Ne sono testimonianza i suoi ultimi libri Molino Braida e A San Pietro in Cerro: racconti e memorie di un “piccolo mondo antico” sobrio, dignitoso, colmo di affetti e di umanità, immerso in una natura segnata dalla presenza invisibile del Po; un mondo fonte inesauribile di scoperte e di insegnamenti di vita. Come in questa lirica del 12 gennaio 2020, solennità del Battesimo di Gesù:

«Mi battezzò don Agostino,/il mio Giordano fu la fonte/nella chiesetta di San Pietro./La colomba volatami in capo,/furono gli usignoli e i fringuelli/di quel caldo meriggio di giugno./Niente di strano, un battesimo/semplice e privo di orpelli:/papà e mamma senz’altro felici,/giovani e belli, nel loro abito/leggero e migliore, e nonno Primo/a passarmi il suo nome – Giovanni –,/orgoglioso del terzo nipote,/con le campane a lungo festose,/fino alla nostra povera casa/in mezzo ai campi e ai filari./Eppure, anche se tutto sembra normale,/quei segni di acqua e di olio/mi proteggono, ancora, dal male/che adesca e làcera il mondo,/anche se il battesimo vero – lo so –/è quello segreto e nascosto,/che alla fine del tempo a me destinato/il mio corpo per sempre unirà/al fiume eterno di Vita,/attraverso il necessario/rituale di espiazione e di morte – lo so –,/oltrepassata la notte e la sua oscurità».

 

 

 

 

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