Più dai, più hai

Gratuità, bella e fragile: per assaporarla è necessario vederla in opera, conoscerla nel vissuto concreto delle persone. Suor Jenny ci regala un pezzo della sua vita, nel laboratorio di arte-terapia, facendoci gustare l’essenza della creatività nella reciprocità. Tratto da Unità e Carismi

Sono le 11.15 di un martedì caldissimo del luglio romano, e desidero andare alla messa a San Pietro alle 12, ma la fila per il metal detector è chilometrica, tanto che mi assale il dubbio di essere in quella sbagliata. La speranza che ci sia una corsia preferenziale mi infonde il coraggio di correre dalla guardia e spiegarle candidamente la mia intenzione; questa, come tutta risposta, ha una sonora risata e un «se vuoi arrivare a messa puntuale devi iniziare la fila alle 7». Non ci sono se e ma.

Me ne vado, arrabbiata e scoraggiata. A testa bassa inforco a caso una delle tante stradine che circondano San Pietro, trascinandomi domande perplesse circa l’incredulità su quanto appena vissuto: «Possibile che quella guardia sia stata così sbrigativa e spersonalizzante con me e mi abbia pure derisa? Nemmeno a messa si può più andare?».

Galleggio in questi pensieri quando una voce lontana riesce a bucare l’ovattamento in cui mi trovo, facendomi arrivare al cervello una frase di senso compiuto: «Ho fame, mi aiuti?». In due secondi realizzo che il suono proviene dalla bocca di un uomo seduto sul marciapiede davanti a un bar, con la mano aperta protesa verso me.

C’è tanta gente che mi passa accanto schivandomi, mentre in quella zona fortunatamente pedonale rimango impalata in mezzo alla strada a guardarlo, cercando di fare spazio a qualcosa di nuovo, nettamente in contrasto con la mia indignazione e il mio sconforto. Istintivamente gli domando cosa voglia mangiare, in modo da poterglielo comprare, e la risposta che mi arriva è un imbarazzato «non lo so, scegli tu».

Trovo profondamente ingiusto dover scegliere al posto suo e, improvvisamente, una spinta da dentro, senza che io ne sia consapevole, mi fa rispondere: «Entra in questo bar con me, così scegli tu quello che ti piace». Da imbarazzato, l’uomo si fa incredulo, guardandosi intorno quasi a cercare l’inganno, e chiedendomi se ne sono davvero sicura o se si tratta di uno scherzo. Si alza, mi si avvicina e tenendo la mano mi dice il suo nome. Gli rispondo con una stretta e mi presento a mia volta. In piedi, entrambi, alla stessa altezza di sguardi.

Solo una volta varcata la soglia del bar, mi rendo conto che la mia proposta, di origine istintiva, non è poi così all’ordine del giorno. Mi aiutano a capirlo gli sguardi della gente seduta ai tavoli o in fila alla cassa, che si appuntano guardinghi sugli abiti logori e sgualciti del mio compagno appena incontrato.

È nella fila alla cassa che quell’uomo, di nome Fabio, a un certo punto mi chiede: «Ma tu non hai fame?». Non ci pensavo alla mia fame, nonostante il buco allo stomaco. Al mio sì, dopo cinque minuti ci ritroviamo seduti a un tavolo, a pranzare insieme. Per tutto il tempo Fabio non fa che ripetermi, incredibilmente gioioso, che non gli era mai successa una cosa del genere, in sei mesi in cui si trovava per strada. Sono piena di gioia anche io. Ci salutiamo ringraziandoci reciprocamente.

Da tre anni, il giovedì pomeriggio, vivo, per certi versi, un’esperienza simile a quella appena raccontata, in un centro diurno per persone senza fissa dimora o con disagi di altra entità, tenuto da noi francescane dei poveri. L’unica differenza è che non ci si siede a tavola per mangiare, ma per dipingere e disegnare. Questo centro non risponde solo ai bisogni essenziali di questi “ultimi” ma, secondo l’intuizione geniale e oserei dire anche evangelica di una di noi, risponde anche a quello troppo spesso frustrato e messo da parte a causa delle condizioni di stenti in cui vivono, ovvero al bisogno di entrare in contatto con la parte più autentica di sé, unica, irripetibile e originale, che fa parte di quell’identità propria strettamente connessa alla dignità personale.

Indimenticabile la prima volta che, varcando la porta del centro, con le mani piene di materiali artistici e insicurezze sul senso di questo laboratorio di arte-terapia, non faccio a tempo a balbettare il mio nome che immediatamente mi sento dire, proprio da coloro che avrei dovuto aiutare: «Benvenuta, accomodati, ti stavamo aspettando».

Dopo i primi incontri laboratoriali, in cui il mio obiettivo s’incentrava esclusivamente sul sostenere il processo artistico con le mie competenze di arte-terapeuta, un utente condivide con me la sua gioia di poter scegliere come dare forma, creare e avere uno spazio di sperimentazione artistica, e mi chiede: «Suor Jenny, tu non vuoi disegnare? Perché non crei anche tu qui con noi?». Da quella domanda ho cominciato, con qualche piccolo strappo alla regola, a sedermi, alla stessa altezza di sguardi, e a tuffarmi nello stesso clima creativo. Ne è risultato uno spazio franco in cui ciascuno di noi crea e attinge idee, spunti, me compresa.

Tu non hai fame? Tu non desideri disegnare? Gratuità, qualcosa di estremamente bello e fragile che non ha nulla a che fare con la logica del calcolo, dello scambio e degli interessi, in cui stranamente, se doni, non perdi. Anzi, in cui più dai, più hai. Gratuità, una parola estranea alla mercificazione e all’arrivare primi. Gratuità, una dimensione composta da tempo e spazio, che non chiede nulla se non di essere se stessi. Gratuità che fa rima con creatività, reciprocità, fondata sulla persona, su dei profili viventi precisi e inequivocabili.

Ripenso alle 11.15 di quel martedì di un caldissimo luglio e mi accorgo che alla messa alla quale Dio mi stava attendendo forse, in qualche modo, ci sono andata. Non era alle 12, non era a San Pietro, ma in un bar di una stradina nascosta, con uno dei tanti fratelli mai incontrati che mi dava il benvenuto gratuitamente, mi faceva accomodare, e che mi ricordava che… più dai, più hai.

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