Pink Subaru

Esce oggi "la Subaru rosa", film dell'esordiente Kazuya Ogawa. Una commedia scherzosa e onirica sui piccoli drammi della vita, tra israeliani e palestinesi che - per una volta - non si fanno la guerra
pink subaru

È possibile una volta tanto girare un film di ebrei e palestinesi che non si ammazzano o non fuggono dalle guerre? Magari ridono, scherzano e si complicano la vita a cercare la macchina dei sogni –una Subaru giapponese –, comprata con i sacrifici di vent’anni di lavoro e poi rubata la mattina dopo, senza nemmeno aver avuto il tempo di assicurarla. È quanto capita al povero Elzober (un eccellente Akram Telawe), vedovo quarantacinquenne con due bambini, cuoco a Tel Aviv in un ristorante di sushi. A Tayibe, città arabo-israeliana dove vive, si mobilitano tutti a cercare l’auto. Rigattieri, una maga, ladri di macchine abilissimi nel riciclaggio si mettono dentro ad un puzzle che vorrebbe far capire a noi europei che c’è anche la vita, gli affetti, la normalità quotidiana di matrimoni, di figli da portare a scuola, delle amicizie e, perché no, della pace fra la gente comune di quelle terre.

 

Recitato in un miscuglio di lingue – arabo, ebraico, giapponese (perché la Subaru è giapponese, come i produttori del film e il regista…) – e quindi con i necessari sottotitoli in italiano, l’opera prima del giovane Kazuya Ogawa ha già vinto al Torino Film Festival, in Francia e in Giappone diversi premi. Ora tenta l’affondo da noi, in Italia. Riuscirà a imporsi?

 

Anche se il ritmo qualche volta è sfilacciato – si tratta pur sempre di un’opera prima – la recitazione è ben curata, le musiche e la fotografia pure: il giovane regista sa il fatto suo ed ha la qualità di una mano leggera. Del resto il film è una commedia scherzosa e onirica sui piccoli drammi della vita e su come, in fondo, basta avere un’auto per essere felici ed amarla come fosse la “donna della vita”.

 

Esagerazioni? Per chi si accontenta di poco per avere un po’ di gioia, non diremmo. Un film che val la pena vedere. Anche perché, finalmente, senza aver la presunzione del capolavoro – come capita ad alcuni esordienti nostrani – non mostra carri armati e soldati, ma la gente che “vive”. Magari di espedienti, ma è viva.

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