Pietro Germi, “il grande falegname”

Il 5 dicembre di 40 anni fa moriva un importante regista italiano, maestro del narrare la vita attraverso il cinema. Tra le sue pellicole più famose, “Divorzio all’italiana” e “Signore e signori”
Pietro Germi

Il 5 dicembre del ’74, 40 anni fa precisi, Pietro Germi ci lasciava: un importante regista italiano, un attento fotografo del nostro dopoguerra, un maestro del narrare, salutava la vita e il cinema.I suoi film hanno regalato sorrisi e lacrime, hanno costruito reportage preziosi su un’Italia in mutazione, attingendo sapientemente al cinema americano.

Germi ha parlato di mafia, di emigrazione, di operai e di famiglie messe in crisi dai cambiamenti in atto nella società; lo ha fatto adoperando il western, il poliziesco e il melodramma. Le sue storie, a volte da lui stesso interpretate, hanno sfruttato i generi fin dall’esordio: Il testimone(1946) e Gioventù perduta (1947) sono tinti di giallo e noir; con In nome della legge (1949)le atmosfere del western approdano in Sicilia, in un film che affronta il delicato tema della mafia. Non meno superficiale di quello toccato dal regista con Il cammino della speranza (1950), che parla di emigrazione con un'opera che ricorda Furore di John Ford. Nel '59, rileggendo liberamente il Pasticciaccio di Gadda, Germi gira un giallo poliziesco che influenzerà non poco il cinema italiano: Un maledetto imbroglio mostra una Roma realistica degli anni ’50 attraverso un commissario di polizia interpretato dallo stesso Germi. Il film chiude una trilogia sull’Italia della seconda metà del decennio, dove il nuovo sta sgretolando un intero sistema di valori. L’aveva aperta nel '55 Il ferroviere el’aveva proseguita nel '57 L'uomo di paglia:due racconti di operai in crisi che vedono la propria famiglia sfaldarsi davanti ai loro occhi, e nessuno può farci nulla, nemmeno la coscienza proletaria. Germi (che in entrambi i film veste i panni dei protagonisti) è neorealista nell’osservare gli umili, nel tratteggiarli con sincera partecipazione; ma il suo stare tra l'Italia e l'America, e soprattutto quel dipingere operai senza coscienza di classe, rappresentano, per buona parte della criticadel tempo, un mancato allineamento al neorealismo, e il segno di un cinema eccessivamente populista, intimista e sentimentale. Il suo essere “diversamente neorealista” e i suoi operai “soli” non piacciono troppo alla sinistra, ma quella solitudine che li rende fragili e spaesati rappresenta un'Italia non più della ricostruzione (che unì), ma del disagio esistenziale (che divide), lo stesso raccontato da Visconti poco dopo con Rocco e i suoi fratelli(1960).

Germi, tuttavia, con l'entrata negli anni '60 dribbla tuttirealizzando un trittico di commedie corrosive di prezioso valore antropologico: nel 1961, con il capolavoro di Divorzio all’italiana vince un Oscar per la miglior sceneggiatura, e nel '66, dopo Sedotta e abbandonata(1964), ottiene la Palma d’Oro a Cannes con Signore e signori. C'è l'Italia tutta negli angolini di Sicilia dei primi due film e nel Nord Est del terzo: fotografie di un Paese ancora schiacciato da costumi arcaici e al tempo stesso incattivito dal denaro sempre più padrone.In quell'Italia post boom non c'è più spazio per i contadini e i proletari di Germi, che dopo Signore e signorismetterà di raccontare il presente girando l'innocuo Serafino(1968) e più tardi Alfredo Alfredo(1972), sul rapporto tra un timido e le donne. C'è dell'autobiografia, in questo film che ritrova il ritmo e l'incisività del miglior Germi, ma sarà l'ultimo acuto dell'autore, perché il soggetto di Amici miei, da lui scritto quando era già molto malato, lo realizza Mario Monicelli.

Aveva un carattere difficile, Germi, lo dicono in tanti, ma anche un gran talento. Fellini lo soprannominò «il grande falegname», rischiando di ridurlo a semplice artigiano del cinema. Ma quando lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni conobbe il grande Billy Wilder, questi non gli disse di voler conoscere Fellini, ma Pietro Germi: il regista a lui più simile.

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