Perché aumenta l’infelicità

Nel paese di Cuccagna qualcosa non va. E non solo tra i giovani. Smettiamo di mentire e parliamoci a viso aperto.
Perché aumenta l'infelicità

Su una cosa tutti – delle più varie idee, fedi e non fedi – possiamo essere d’accordo, anzi lo dobbiamo se non ci bendiamo gli occhi: aumenta il consumo di droga con tutti gli effetti distruttivi connessi, il numero dei suicidi, l’alcolismo, aumentano gli sballi di ogni tipo; e tutti questi sono sintomi di infelicità. O cos’altro?

La scena relativistico-consumistica che ovunque si allarga assomiglia a quella riunione di partito nell’allora Unione Sovietica, in cui un “compagno” ebbe la malaugurata idea di avviare un applauso a Stalin, e allungandosi l’applauso si trasformò in incubo perché a ciascuno venne in mente che era pericoloso smettere di applaudire per primo, e la festante tortura si trascinò per molto tempo. Così i nostri divertitissimi giovani (e non solo) mentre hanno l’aria di non poterne più dal piacere ne sono sfiniti e spesso inconfessatamente atterriti.

La cosa, così grave ed estesa e montante, crediamo meriti una riflessione molto rigorosa, che se non altro dobbiamo ai nostri figli come analisi del rapporto inevitabile tra arroganza e spavento, violenza e debolezza spirituale, consumismo e consumo di sé stessi, ovvero disperazione.

Siamo al livello di costatazione in cui si deve dire ciò che altri si mordono le labbra per non dire, o non vogliono riconoscere, o semplicemente mistificano mentendo: che, cioè, “il re è nudo”.

Il re in questione è l’aria che si respira nella nostra società, composta di miasmi mediatici, televisivi, elettronici vari – miasmi prodotti dal cattivo uso di questi strumenti – e di feroce logica dell’avere a cui non importa niente dell’essere, perché lo identifica con l’avere.

 

Proviamo a descrivere questa deriva precipitosa, che acquista velocità di caduta da sé stessa, in e su sé stessa: il ragazzo/a (ma non solo) XY viene continuamente bombardato dalla falsissima e opprimente sollecitazione a essere più libero: la società – di mercato – attuale, deliberatamente capovolgendo il Vangelo, e mentendo, assicura che è la libertà che fa veri, non la verità che fa liberi, perché la verità non esiste, perciò lui deve (la propaganda va per le spicce) fumare di tutto, ubriacarsi, drogarsi, svendersi sessualmente e svendere gli altri, rifiutare ogni conoscenza non meramente tecnica (istruzioni per l’uso anche di sé), e dare in escandescenze contro chiunque voglia provare a salvargli la vita. Poi inevitabilmente spegnersi e/o morire lasciando ad altri il turno per lo stesso destino.

La spiegazione filosofica (quanto ci manca un po’ di filosofia sana e semplice) e spirituale di tutto ciò è purtroppo molto ovvia: sarebbe quasi meglio che fosse complessa e difficile, per giustificarci. Ed è che il relativismo materialista e consumista conosce solo le cose, ma come le conosce lui, cioè limitatamente e distortamente; perciò solo nelle cose cerca il suo appagamento. Ma ne riceve un’inevitabile delusione: nel paese di Cuccagna non c’è felicità perché alla bassa altezza delle cose tutto è niente.

E allora dai a moltiplicare le cose: se una birra non basta, allora speri negli alcoolici hard, e se non bastano, allora cocaina, se una donna o un uomo non bastano, allora due, tre, dieci; se cento non bastano, allora 180 e morte a chi ci capita; e con l’obbligo di chiamare movida anche una danza macabra.

Ma le birre potrebbero essere mille, la cocaina chili, lo sfrenamento sensuale infinito, e il risultato non cambierebbe di niente; finché non si riesca a capire che la quantità, a differenza di ciò che inclinò sciaguratamente a credere Hegel (non per caso all’inizio della nostra epoca), e che poi giurarono Feuerbach, Marx, Engels, ecc. – non dà mai qualità; ubriacarsi con un litro o con cento litri può portare all’unica variazione (quantitativa) della morte, e comunque non inietta nelle vene un grammo di vera felicità.

Questa, ovvero la qualità della vita, pretende il cammino precisamente inverso: dalla ricchezza alla povertà, dalla superbia all’umiltà, dalla dilatazione allo sgonfiamento dell’io, dall’avere al nulla; sì, perché questo è l’unico vero punto di partenza di un cammino di verità e perciò di felicità.

Sembra una predica? Bene, cancelliamola, e vediamo cosa resta. Nulla? Appunto: tanto per cominciare.

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