Pensioni povere. Come disinnescare una bomba sociale

Intervista al presidente delle Acli, Gianni Bottalico, sulle misure necessarie per prevenire la miseria, in vecchiaia, degli attuali precari. I fondi integrativi non sono la risposta
Mensa dei poveri

Mentre il nuovo presidente dell’Inps, Tito Boeri, sta elaborando una ipotesi di riforma delle pensioni che sarà discussa entro giugno, l’ultima circolare dell’Istituto nazionale di previdenza sociale comunica che dal 2016 aumenterà il requisito per ricevere la pensione di vecchiaia.

 

Con almeno 20 anni di contributi, occorrerà aver compiuto almeno 66 anni e sette mesi di età. Per la pensione di anzianità necessiterà aver maturato versamenti contributivi pari a 42 anni e 10 mesi se uomini (41 anni e 10 mesi se donne).

 

Per il momento, lo stesso Boeri ha evidenziato l’urgenza di recuperare un miliardo e mezzo di euro necessario a coprire le posizioni scoperte di quei lavoratori con oltre 55 anni di età che non ricevono stipendio o pensione. Proiettando sul futuro tali dati, emerge il grande punto interrogativo non solo per chi oggi è disoccupato, ma anche per quei 3 milioni e 750 mila lavoratori che, secondo una recente ricerca del Cnel del febbraio 2015, percepiscono una retribuzione (4,8 euro netti l’ora) del tutto insufficiente per l’esistenza attuale e la maturazione di una pensione dignitosa da anziani.  

 

Infatti, secondo il “Rapporto sullo stato sociale” curato dal professor Felice Roberto Pizzuti della facoltà di economia dell’Università La Sapienza di Roma , nel giro dei prossimi venti anni questo problema riguarderà anche quei lavoratori che già nei precedenti  venti anni, hanno  sperimentato forme di lavoro non stabile e intermittente. Su un tema così significativo e strategico abbiamo chiesto il parere al presidente delle Acli, Gianni Bottalico, da sempre attento all’urgenza della lotta contro la povertà.

 

La previsione di future pensioni insufficienti per la sussistenza degli attuali lavoratori precari è una “bomba sociale” pronta ad esplodere. Quale analisi avete compiuto come Acli?

 

«Purtroppo si tratta proprio di una bomba sociale, destinata a provocare un cataclisma sociale. Fuor di metafora, a vent'anni dalla riforma Dini e successive, dal passaggio dal sistema di calcolo retributivo al sistema di calcolo contributivo, dobbiamo iniziare adesso e con urgenza a porre questo problema. Siccome è matematico che i risparmi che si stimano in circa 80 miliardi prodotti dal passaggio al contributivo, derivano dalla decurtazione delle pensioni, bisogna al più presto pensare a cosa fare per le molte pensioni al di sotto della soglia di povertà. Oggi si possono vedere le avvisaglie di questo grande cataclisma sociale analizzando gli importi pensionistici percepiti dai primi cittadini che sono divenuti titolari di pensioni calcolate integralmente col metodo contributivo. Si tratta di chi diviene invalido o rimane vedovo».

 

Avete dei numeri da far conoscere?

 

«Le Acli, tramite la federazione dei pensionati e i patronati, hanno calcolato che si tratta di una platea di 51 mila  persone. I titolari di queste nuove pensioni di invalidità e superstiti liquidate esclusivamente con il sistema contributivo, percepiscono un importo medio di poco oltre 173 euro mensili, enormemente al di sotto della soglia di povertà. È certo che quando ci sarà la prima generazione ad andare in pensione per anzianità con pensioni calcolate esclusivamente col metodo contributivo, nella quale ci saranno molti precari, disoccupati, che non hanno lavorato con continuità, oppure anche chi ha lavorato per una vita percependo bassi salari, saremo di fronte alla prima generazione di pensionati poveri di massa».

 

Qual è il vostro parere per prevenire un danno così esteso?

 

«La proposta delle Acli è molto semplice: se vogliamo evitare la disperazione dei futuri anziani e contraccolpi inimmaginabili sull'equilibrio delle famiglie, dobbiamo sin da ora introdurre l'integrazione delle nuove pensioni calcolate integralmente con il sistema contributivo alle pensioni sociali, che sono di poco superiori ai 500 Euro, superando l'esplicito divieto contenuto nella riforma Dini».

 

Ha ancora senso affidarsi al pilastro della previdenza integrativa a capitalizzazione visto l'andamento incostante dei mercati? Non è una contraddizione che tale risparmio previdenziale venga gestito da fondi che, per il 70 per cento, investono sul mercato estero, alla ricerca di rendimenti convenienti, invece di finanziare interventi strutturali necessari in Italia?

 

«La previdenza integrativa è un di più. Purtroppo negli ultimi anni lo Stato ha giocato al gioco delle tre carte dicendo al lavoratore: io ti decurto la pensione passando al contributivo e ti dò però la possibilità di costruirti una previdenza integrativa. Questo va benissimo per i dirigenti. Ma per la massa dei lavoratori non si capisce chi la finanzia la previdenza integrativa. Il lavoratore se ha un salario basso, e/o un reddito da lavoro discontinuo a malapena riesce a non morire di fame: dove le trova le risorse per pagarsi la previdenza integrativa. Detto ciò, ci sono fondi previdenziali, come quelli per i metalmeccanici che funzionano benissimo, ma bisogna sempre vigilare sul tipo di investimenti che fanno: bene se comprano titoli di Stato, male se investono nei fondi speculativi che comprano e spacchettano le aziende, mandando a casa i lavoratori, solo per l'idolo del profitto».

 

Sul numero 7/2015 della rivista Città Nuova sarà dedicato uno spazio di approfondimento sulla questione delle pensione degli attuali lavoratori precari.

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